Dune, arrivato al secondo capitolo della saga, si prospetta come un avvincente capolavoro di design e architettura. Il colossal di fantascienza di Denis Villeneuve si basa infatti sulla idea che forme, architetture e colori possano in qualche modo influenzare il senso della narrazione e che dunque la psicologia degli spazi sicuramente contribuisce ad arricchire il significato della trama. Il punto di forza di questo film infatti è che la storia – come spesso accade nelle opere di fantascienza – lascia il posto alle immagini, nitide e caratterizzanti, che immediatamente rimangono impresse nella mente degli spettatori. In Dune ogni fotogramma è una visione perfettamente funzionante e ogni singola scena trasuda arte, architettura, design: dagli sfondi agli interni, dalle tecnologie fantascientifiche fino ai futuristici costumi, in un misto di arte e moda.
Ciò che infatti colpisce maggiormente in entrambi i capitoli di Dune è la connotazione identitaria delle ambientazioni e ogni popolo ha i suoi spazi. Il procedimento utilizzato dal regista appare assai simile a ciò che il musicista Richard Wagner faceva già due secoli fa: l’utilizzo di un leitmotiv. Nelle composizioni di Wagner a ogni personaggio era assegnata una melodia diversa, così da renderlo immediatamente riconoscibile al pubblico. Denis Villeneuve in Dune fa esattamente lo stesso, utilizzando però gli espedienti dell’architettura, del design e quelli del colore.
E così ad esempio, le popolazioni indigene di Arrakis, i Fremen, sono fortemente influenzati dalla cultura orientale e tutte le strutture si ispirano all’architettura araba contemporanea tra superfici lisce e linee morbide e sinuose. Il loro colore dominante è il giallo sabbia, che ovviamente allude agli sfondi dei deserti arabi. Per gli Harkonnen invece, i cattivi della trama, il colore è il nero mentre le loro città sono un mix di modernità e antica Roma.
Le costruzioni nascoste dei Fremen presentano tagli di luce che entrano quasi clandestinamente e che potrebbero ricordare la smaterializzazione di Lucio Fontana e una dimensione che si trova al di là. Come in Fontana, anche in Dune l’arte e l’architettura sono concepite come elementi spaziali, è sempre la materia che emerge dallo spazio ed è quest’ultimo artefice della collocazione dell’opera al suo interno e non viceversa. In Dune è lo spazio con le sue componenti architettoniche che decide e sceglie la storia da raccontare, un ambiente in cui infinite trame si intersecano.
Il film è questa volta ambientato in Ungheria, Norvegia, Arabia Saudita, Giordania e…Italia! In particolare nelle zone di Treviso, dove si trova una location molto particolare, la Tomba di Brion, progettata dall’architetto e designer Carlo Scarpa e non a caso ispirata a diverse culture: da quella paleocristiana a quella orientale. Una scelta architettonica che come le altre, è perfetta per la trama di questo film. Il monumento funebre ideato da Scarpa tra il 1970 e il 1978 in memoria di Giuseppe Brion, è tra le sue opere più complesse e sicuramente più originali. La spiritualità del monumento veneto, che in qualche modo riesce a portare il visitatore in una dimensione altra, diventa parte dalla storia di Dune. In entrambi i casi c’è un rimando a un mondo lontano, a noi estraneo. Curioso che in uno dei suoi progetti più complessi, Scarpa si ritrovi in mezzo al nulla, tra le campagne trevigiane, che riescono però perfettamente a far intendere l’architettura come una visione simbolica del luogo. Un monumento che sembra così provenire da una realtà sconosciuta, aliena, che sicuramente non ci appartiene e che non ha le caratteristiche a cui siamo abituati, proprio come accade nelle scenografie di questo lungometraggio.