Il senso della Venere degli stracci per la piazza

Il gigantesco remake dell’opera di Pistoletto torna a Napoli come se niente fosse accaduto. Mentre a Suzzara un gruppo di ragazzi festeggia con barbecue in un’installazione di Cavenago. Tutto normale?   

Il 6 marzo prossimo la Venere, anzi la “Grande” Venere degli stracci, tornerà a piazza Plebiscito di Napoli. Tale e quale a quella bruciata da un clochard il 12 luglio 2023, con la sola anima di ferro della precedente che l’autore, Michelangelo Pistoletto, ha voluto riutilizzare, quasi a segnare tangibilmente una continuità tra la prima e la seconda Grande Venere. 

La Venere degli Stracci a Napoli

Così il gigantesco remake dell’opera iconica che Pistoletto realizzò nel 1967, torna nell’altrettanto iconica piazza napoletana come se non fosse successo niente. Niente rogo, niente polemiche, niente domande sul senso dell’Arte Pubblica. Niente di niente. 

Non sappiamo che cosa succederà e certo non ci auguriamo che la Grande Venere numero 2 faccia la stessa fine della numero 1, né che sia in nessun modo vandalizzata o aggredita. Ma riprendere un po’ di domande emerse dopo il rogo, no? Non sarebbe, insomma, l’occasione per riflettere sul senso delle opere collocate su suolo pubblico? Non solo il valido argomento sollevato da Pericle Guaglianone su “Artribune” circa la correttezza sintattica della Venere esposta a piazza Plebiscito i cui stracci apparivano (e riappariranno) ridicolmente piccoli, fuori scala, rispetto alla Venere originaria che quindi, in questo modo, perdeva (e riperderà) la sua aura, la sua magia, il legame visivo e concettuale, oltre che sintattico appunto, tra la scultura e gli stracci su cui la Venere è appoggiata. 

Ovvio che il rogo di un clochard non può fermare i processi di Arte Pubblica, ma che senso ha questa quando si basa sullo stravolgimento di un’opera nata, peraltro, in tutt’altra temperie culturale e non per essere esposta all’aperto e il cui collocamento è stato deciso dal Comune di Napoli senza, pare, nessuno (o scarso) coinvolgimento della cittadinanza? Facile populismo? No, è che certe questioni non si possono eludere. 

Piazza Plebiscito ha una storia alle spalle in termini di Arte Pubblica. Dalla prima installazione La Montagna di Sale di Mimmo Paladino, voluta dall’allora sindaco Bassolino nell’ormai lontano 1995 che fu un notevole successo popolare, via via, durante le quindici edizioni di Arte in Piazza Plebiscito (così si chiamava il progetto targato Bassolino), i vari interventi persero forza, nerbo, consenso, fino a campeggiare desolati – ricordo l’ultima installazione quasi spettrale di Carsten Nicolai – nel grande invaso della piazza senza essere più attrattivi. Evidentemente qualcosa si era rotto, il patto tra Istituzione e pubblico che prima aveva retto. Patto, senso di appartenenza di una comunità che si riconosce in un’opera e quindi la riconosce, requisiti fondamentali per qualsiasi installazione che sorge su suolo pubblico. 

Mimmo Paladino, La montagna di sale, 1995, Piazza Plebiscito, Napoli

La storia recente racconta di tanti episodi: il più famoso ha riguardato il pur maestoso e affascinante muro curvo, Titled Arc, di Richard Serra, collocato, peraltro su progetto site specific, nel 1981 nella Federal Plaza, cuore del Financial district di Manhattan, e poi smantellato e rimosso nel 1985 a seguito di lunghi dibattiti. Per restare a casa nostra, un esperimento invece positivo fu quello condotto a Torino Mirafiori dall’associazione a.titolo che si avvalse del format Nuovi Committenti per individuare, attraverso incontri e discussioni con gli abitanti del quartiere, eventuali interventi ad opera di artisti ritenuti importanti per la qualità della loro vita. 

Richard serra, Titled Arc, 1981

Procedure come queste richiedono tempo e soprattutto volontà da parte delle Istituzioni di confrontarsi con gli utenti, requisiti che evidentemente non sono in cima agli interessi delle amministrazioni. Che spesso promuovono progetti di Arte Pubblica per ottenere consenso e facile visibilità e che però poi, installando e lasciando al loro destino le opere, si rendono implicitamente responsabili del loro degrado ed eventuale vandalizzazione.  

Un esempio recente viene dall’utilizzo a mo’ di barbecue di un’opera che l’artista Umberto Cavenago ha realizzato a Suzzara, in provincia di Mantova. Il fatto, se non avesse dei risvolti penosi, sarebbe quasi comico. Si tratta di una sorta di arca in acciaio corten, giorni fa visitata da un po’ di ragazzi che decidono di farci festa con grigliata di carne e birrette. E infatti Cavenago non se l’è presa con l’allegra brigata, dicendo anzi che si sarebbe unito volentieri al barbecue, ma con l’amministrazione di Suzzara che di fatto ha abbandonato la sua opera: «Danni e incuria sono generati dalla totale assenza di progettualità e nell’assenza di lungimiranza dei politici di Suzzara», ha tuonato Cavenago. 

L’installazione di Umberto Cavenago

Che fare? Chiaro che la storia non finisce con questi due ultimi episodi, ma, tra le varie domande, è anche lecito chiedersi perché un artista come Pistoletto, che ha una luminosa storia alle spalle, ogni tanto faccia atterrare le sue opere su suolo pubblico per decisione dell’amministrazione di turno (con il valido supporto delle sue gallerie), così come per esempio è per la Mela che troneggia – assai brutta, diciamolo – davanti alla stazione centrale di Milano. E dire che sempre di più quando si tratta di arte, e specie contemporanea, si spendono parole come condivisione, inclusione, cittadinanza attiva. Si spendono per i musei, per entrare nei quali si fa una scelta, ma evidentemente valgono poco fuori dai musei, dove non si scelgono le opere, ma semplicemente ci si imbatte. 

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