L’eterno ritorno: di tempo, tecnologia e meraviglia 

Studio su A Cosmic Movie Camera: la 24esima edizione della Biennale dell’Immagine in Movimento al Centre d’Art Contemporain di Ginevra

Sometimes you think you can conquer the day! Don’t you?
[Sahej Rahal, da un dialogo con Nora K. Khan]

«Sono solito ritornare eternamente all’eterno ritorno»1. Con queste parole nel 2005 Daniel Birnbaum apriva Chronology, raccogliendo una serie di artisti che lavorano con l’immagine in movimento e individuando con questa materia un legame inscindibile con il tempo. Era recente la scoperta della finitezza del numero, benché smisurato, delle particelle che compongono l’universo, e il critico svedese rifletteva sul fatto che, evidentemente allora, l’universo sarebbe perciò capace soltanto di un numero finito, sebbene anch’esso smisurato, di permutazioni. Esiste un parallelo tra la circolarità dell’eterno ritorno e la mostra che, a distanza di due decenni, la Biennale de l’Image en Mouvement ha inaugurato invadendo la totalità degli spazi del Centre d’Art Contemporain di GinevraA Cosmic Movie Camera

L’idea sottesa della Biennale, nelle modalità in cui è stata rilanciata dal direttore del CAC, Andrea Bellini, consiste nella scommessa di rinunciare a un tema predefinito, andando ad affidare all’attenta selezione di un gruppo di artisti e artiste e alla commissione di nuove produzioni, l’intuizione dello spirito del tempo di cui essa stessa diviene espressione. Per la 24esima edizione – che ricorre nel cinquantesimo anniversario dalla sua istituzione – co-curata insieme a Nora N. Khan, i curatori hanno trovato nell’immagine misteriosa captata dall’Event Horizon Telescope, la prima mai realizzata di un buco nero, la chiave offerta da 15 artisti internazionali, tanto diversi quanto vicini per un interesse condiviso: il limite di ciò che è conoscibile, osservabile, quantificabile.

Ma c’è di più. Pare che l’anello luminoso che circonda il buco nero, secondo alcuni calcoli computazionali che ipotizzano il tragitto dei fotoni stagliarsi su un’immensa pellicola immaginaria e tornare indietro – già di per sé incredibile – possa fornire maggiori informazioni sul vuoto centrale. Se dunque si potesse osservare questo cerchio di luce, si vedrebbe «ogni oggetto esistente nell’universo, ripetersi infinite volte»2. È con questa idea che A Cosmic Movie Camera si addentra nella creazione artistica contemporanea e seziona l’immagine in movimento nelle sue numerose, possibili e probabili implicazioni, di volta in volta approcciando l’image-making ora come un linguaggio, ora come un fatto socio-politico, ora come una cartina di tornasole della ciclopica e accelerata rivoluzione tecnologica con cui l’umanità si trova a fare i conti. 

La mostra inizia in medias res, al piano terra del CAC di fronte a un imponente video installazione di American Artist, invasa da una luce rossa. Attraverso la struttura in legno che richiama la finestra di una lussureggiante villa californiana, Yannis Window proietta il visitatore nell’immaginario distopico del romanzo Parable of the Sower (1993), di Octavia E.Butler, da cui estrae due momenti: la campagna presidenziale di un dubbio personaggio e la notizia della morte di un’astronauta che ha scoperto il proprio destino su Marte. Un futuro dall’autrice fissato al 2024 che pericolosamente si ricongiunge con il presente. In cima alle scale si stagliano le sei torri LED che compongono Codex Virtualis_Emergence 0.1 di Interspecifics.

Ispirato al Codex Seraphinianus, con cui Luigi Serafini ci meravigliava tramite la creazione di un alfabeto visivo che ridisegnava il mondo, l’opera è alimentata da un algoritmo che per 48 ore consecutive sintetizza l’immagine in una collezione tassonomica e aperta di nuove forme di vita. Se il collettivo di Città del Messico si interroga sull’irrisolta definizione di vita, Lauren Lee McCarty, con il lavoro Saliva Retreat, rivendica il diritto individuale di disporre delle sostanze corporee in autonomia, e organizza un incontro di spit swapping. Siamo in un laboratorio (disegnato da Formafantasma) e osserviamo alcune persone a Los Angeles scambiarsi reciprocamente saliva in provetta. Nel parlare di sorveglianza, automazione e privacy, le interazioni amichevoli lasciano gradualmente spazio al sospetto, attivando un cortocircuito difficile da eludere. 

Al secondo piano si giunge in un terreno alieno. Due presenze scultoree sorvegliano il paesaggio post-umano del videogioco Distributed Mind Test, di Sahej Rahal, dove i visitatori possono manovrare i movimenti di una bizzarra creatura dentro un ambiente popolato da esseri controllati dall’intelligenza artificiale. Sullo sfondo di un linguaggio inventato a partire dagli organismi ormai estinti, l’artista dà voce a estratti archeologici, come il ritrovamento della pietra extraterrestre che presta la forma alla creaturina viaggiante.

Laddove il concetto di “esperienza limite” (da: Maurice Banchot; George Bataille) è qui sperimentato in tinte apocalittiche, nell’installazione di Emmanuel Van Der Auwera ci si cala nella spietata attualità: l’estrazione delle terre rare dalla più grande miniera al mondo, nella Mongolia Interna; Caryin AI, la prima fidanzata virtuale lanciata nel 2023; la devastazione delle città ucraine. In Videosculpture XXX (The Gospel) le immagini realizzate con le più recenti tecniche di video generativi e campi di radianza neurale, sprofondano nel vetro nero sottostante a un monolite dalla luce accecante.

La vertigine che ne scaturisce è la stessa nello scoprire l’algoritmo che le ha generate: The Gospel, lo stesso attualmente impiegato dall’esercito israeliano nel genocidio a Gaza. Nella stanza accanto, con un repertorio di immagini che si muovono tra visioni di città reali e close-up su avatar virtuali, Postscript: after everything is extracted porta la musica come unico testimone a posteriori di un’espropriazione collettiva. Il duo palestinese Basel Abbas & Ruanne Abou-Rahme, che avviò il progetto nel 2020 con una riflessione sull’essere in perenne stato di lutto, alla luce dell’attuale devastazione in corso in Palestina, Siria e Iraq, oggi chiede cosa significhi esistere nella condizione della mancanza, frammentando la visione in molteplici schermi, suoni, testi e immagini dentro un ambiente buio.

Le luci si riaccendono, piatte e televisive. Lawrence Lek ci trasporta all’interno di un’aula giudiziaria, nella quale un’auto a guida autonoma sotto processo si difende appellandosi alla legislazione esistente e all’impossibilità di essere perseguita per non aver raggiunto l’età legale. Empty Rider esplora la finzione legale della personalità elettronica e come il trauma intergenerazionale possa emergere nell’era del machine learning.

Una volta saliti al terzo piano, si incontrano nuove storie. Dapprima con My way home is through you, scopriamo che quando l’artista Shuang Li si trasferì a Ginevra, realizzò accidentalmente che la foto di un castello che nei suoi ricordi infantili appariva nell’album di famiglia in Cina, corrispondeva a una prigione giovanile in Svizzera. Lo schermo verticale sovrappone queste immagini e, insinuandosi nei vuoti del sistema di circolazione globale, svela un’inaspettata convergenza tra passato e presente.

È poi la volta del film The Majors– si riferisce agli Arcani Maggiori dei Tarocchi – un processo di ricerca individuale, radicato a un calcolo delle probabilità e immerso nell’installazione 11:11 dell’artista nigeriana Sheila Chiamaka Chukwulozie: la sabbia, il fuoco e l’acqua ci riportano all’origine di tutte le cose, creando una sospensione nell’abbondanza tecnologica della mostra. È diversa la postazione di Danielle Brathwaite-Shirley, che con No space for redemption? propone un gioco interattivo la cui narrazione visiva e testuale procede e muta in base alle scelte del pubblico, sollecitato su questioni esistenziali e da un’attitudine cinica verso le generazioni presenti e future.

È invece sul disorientamento dovuto alla dislocazione che interviene Aziz Hazara che, ironizzando sul significato di Nowruz, “un nuovo giorno” e il capodanno persiano, riprende il corpo sdraiato sul letto di una camera asettica di un giovane in esilio, mentre tenta di apprendere il francese e l’algoritmo non lo riconosce per via dell’accento forestiero. Recupera un approccio tra scientifico ed esoterico Jenna Sutela con Sharp Waves, Ripples, un’installazione neuroattiva composta da cinque teste coordinate che, cambiando illuminazione in base agli input che ricevono dall’ambiente, visualizzano il cervello umano come una rete senza barriere. 

L’ultimo piano si suddivide in tre passaggi gradualmente conclusivi. Il primo è il riciclo: applicato all’industria elettronica, il comparto produttivo meno efficiente in termini di riuso, è al centro del progetto Ore Streams di Formafantasma, che interroga il ruolo del design nella trasformazione delle risorse naturali – elemento anticipato al principio della mostra con le sedute di Giacomo Castagnola, realizzate tramite funghi di allevamento. Il secondo è il linguaggio: il melodramma dello scambio epistolare tra due amanti chiusi nel loro solipsismo, protagonista del film La Gola di Diego Marcon, con le musiche originali di Federico Chiari. Infine, il terzo, il tempo: A way out of time di Alfaith è un video che, nascosto in una culla al posto di un bebè, scorre al movimento dell’osservatore il quale diviene custode e autore attivo di una passeggiata nella memoria, ripercorrendo a ritroso questioni irrisolte, verità nascoste e cimiteri in bianco e nero.

In maniera significativa, A Cosmic Movie Camera, raccolta nella figura di un anello luminoso, dagli astrofisici potenzialmente considerato come una sequenza delle immagini dell’intero universo, si conclude in una culla che svela la morte. La moltitudine delle riflessioni sollevate dagli artisti e dalle artiste d’altronde è molto più complessa rispetto a una tale fascinazione. L’immagine è certamente riprodotta in molte delle sue declinazioni esplorabili: generata, proiettata, costruita, evocata, replicata.

Ma sono le implicazioni dell’inarrestabile procedere della tecnologia, e delle abitudini che conseguentemente vengono formate, a spingere la questione su piani più invisibili: la cospirazione come uno degli aspetti della post-verità e l’intelligenza artificiale che ne accelera il processo; la scala individuale che si dissolve ricollocandosi su posizioni collaborative; la coscienza come fenomeno di appannaggio non più unicamente umano; la probabilità come parametro esistenziale.

Per quanto l’estrema varietà delle ricerche radunate renda superflua una percezione univoca della mostra, c’è un sentimento di meraviglia che sembra pervadere tanto le persone in visita quanto gli artisti e le artiste che l’hanno generata. Meraviglia nel suo significato originario, meraviglia come “thauma”, terrore. Come reagire all’ignoto, all’incommensurabile, all’intelligenza artificiale, alla fine? Di fatto tutto sembra immortale, tranne l’essere umano; eppure il tempo, può essere considerato come una tecnologia a disposizione. Come anticipato all’inizio di questo testo, secondo la logica di un tempo infinito, il numero delle costellazioni possibili non può non essere raggiunto, e l’universo non ripetersi. L’inizio coinciderà con la fine, la fine con l’inizio. «Di nuovo nascerai da un ventre […] di nuovo percorrerai tutte le ore della tua vita fino all’ora delle tua morte incredibile.»3

1Daniel Birnbaum, Chronology, Sternberg Press, 2005 (trad. Cronologia – Tempo e identità nei film e nei video degli artisti contemporanei, Postmedia Books, 2007)

2Thomas Lewton, A Black Hole’s Orbiting Ring of Light Could Encrypt Its Inner Secrets, Quanta Magazine, 8 settembre 2022

3Daniel Birnbaum, Chronology, Sternberg Press, 2005 (trad. Cronologia – Tempo e identità nei film e nei video degli artisti contemporanei, Postmedia Books, 2007)

BIENNALE DE L’IMAGE EN MOUVEMENT 2024
A Cosmic Movie Camera
a cura di Nora N. Khan e Andrea Bellini
fino al 16 maggio 2024 
Centre d’Art Contemporain Genève, Svizzera
Visita la mostra in forma virtuale su EPOCH Gallery
realizzata da Peter Wu+