Grazia Varisco, una rivoluzione permanente

Sospensioni eccentriche, false prospettive e sfasamenti dimensionali,il percorso di un’instancabile artista, dagli anni Sessanta a oggi

Grazia Varisco non ama le interviste, piuttosto preferisce conversare, per raccontarsi davvero. Lavora con mezzi semplici, talvolta elementari, ma “pregnanti”, come osservò Gillo Dorfles nel 1969. Ancora studentessa, muove i suoi primi passi nell’Arte Programmata, chiamata anche cinetica per la centralità che vi assume il tema del movimento, e vi affonda una radice che influenzerà tutta la sua poetica. Nelle sue opere, tuttavia, il rigore di un programma basato sul metodo scientifico si dissolve il più delle volte nella fantasia, in un’estrosa vivacità che meraviglia e sa nascondere ironiche sorprese. L’artista costruisce una poetica del “caso”, che è complementare alla regola, e va a caccia dell’imprevisto o dello stupore. Come ha osservato Carlo Belloli, Grazia Varisco “si è collocata nella storia della cultura come rivoluzione permanente”.

Grazia Varisco, portrait, Palazzo Reale, 2022, courtesy Archivio Grazia Varisco, photo Thomas Libis



All’inizio della tua attività, le donne nel mondo dell’arte erano ancora davvero poche. L’Arte Programmata spingeva gli artisti a unirsi in gruppi, credendo nella superiorità creativa del team, quindi della collettività. Così, nel febbraio 1960 sei coraggiosamente entrata nel Gruppo T che era stato costituito alla fine dell’anno precedente dai tuoi compagni di corso all’Accademia di Brera: Giovanni Anceschi, Davide Boriani, Gianni Colombo, Gabriele Devecchi. Con loro hai partecipato alla 32. Biennale di Venezia del 1964.
Sì. Io donna ero “sola” con quattro maschi, compagni di studi in Accademia. Non davo peso al condizionamento in atto e non avvertivo la limitazione nel rapporto Uomo/Donna, che era ancora accettato passivamente. Ho vissuto quel periodo con molto entusiasmo per i tanti interessi condivisi con quei quattro ragazzi, senza però avvertire alcun disagio per la mia condizione femminile.

La “T” di Gruppo T sta per Tempo: la vostra ricerca artistica era incentrata sull’idea della variazione dell’immagine nella sequenza temporale. Nel manifesto del Gruppo si legge: “Ogni aspetto della realtà, colore, forma, luce, spazi geometrici e tempo astronomico, è l’aspetto diverso del darsi dello SPAZIO_TEMPO o meglio: modi diversi di percepire il relazionarsi tra SPAZIO e TEMPO. Consideriamo quindi la realtà come continuo divenire di fenomeni che noi percepiamo nella variazione. Da quando una realtà intesa in questi termini ha preso il posto, nella coscienza dell’uomo (o solamente nella sua intuizione) di una realtà fissa e immutabile, noi ravvisiamo nelle arti una tendenza a esprimere la realtà nei suoi termini di divenire. Quindi considerando l’opera come una realtà fatta con gli stessi elementi che costituiscono quella realtà che ci circonda è necessario che l’opera stessa sia in continua variazione”.
È così, anche se non ho firmato personalmente quel manifesto, perché fu scritto poco prima della mia partecipazione al Gruppo. Sottolineo, però, che noi non cercavamo di rappresentare il tempo attraverso immagini, né attraverso la pittura, né attraverso altri mezzi figurativi che riproducessero l’immagine, come avevano già sperimentato Boccioni, Balla e… Walt Disney. Piuttosto, eravamo interessati al fluire del tempo, ovvero al divenire perpetuo della realtà che è sempre in movimento e in mutamento. Volevamo, nelle nostre opere, rendere evidente il movimento nel suo svolgersi. L’esplorazione di questa dimensione “temporale” ha continuato a essere un punto fermo della mia ricerca dal periodo dell’arte cinetica con il Gruppo T fino all’attualità, sempre con una particolare attenzione al fenomeno percettivo. Recentemente, a Catania, ho esposto due opere, realizzate a distanza di sessant’anni, con l’intento di mettere in evidenza proprio le situazioni soggette al Tempo e al suo scorrere in continue metamorfosi/cambiamenti.

Installation view, Palazzo Reale, 2022, courtesy Archivio Grazia Varisco, photo Thomas Libis

Alla Villa Reale di Monza, nell’ambito del progetto Reggia Contemporanea, recentemente hai realizzato una potente installazione di opere storiche che pone a confronto lavori appartenenti a momenti creativi diversi. Intorno a tre Gnomoni, che sono il fulcro della composizione, hai disposto un Reticolo frangibile, un Mercuriale Variabile-Quadrionda e alcuni dei tuoi Quadri comunicanti.
Sì, le due installazioni create a Catania e a Monza giocano a rincorrere il tempo. Volevo riassumere il percorso creativo che parte da R.F. = Reticolo Frangibile e, con una giocosa sorpresa nel capovolgimento delle due lettere dell’alfabeto, termina con F.R. = Filo Rosso. A Monza ho ripercorso diverse tappe del mio fare artistico: sono partita dall’analisi dei meccanismi della visione, quindi dall’utilizzo di illusioni ottiche nel Reticolo Frangibile Rosso Verde 1971, che mostra a ogni movimento dello sguardo, immagini che si scombinano, spariscono e si riformano in modo imprevedibile. Ho riproposto le suggestioni dell’arte cinetica con Variabile+Quadrionda 1970, oggetto con un motore che attiva il movimento, che grazie al vetro a trama ampia Q.250 mostra elementi solidi di metallo cromato che si sciolgono e si deformano, come elementi liquidi di mercurio. Ho moltiplicato le illusioni geometriche e spaziali degli Gnomoni (scultura Gnom-one-two-three 1984) nei riflessi delle specchiere che adornano la sala neoclassica, riproponendo il tema dell’ambiguità percettiva che circonda lo spettatore. Per concludere con l’opera Quadri Comunicanti – Filo Rosso, del 2008, quattro telai di ferro disposti con una premeditata casualità alla parete, attraversati ciascuno da un sottile tondino di metallo rosso. L’elemento rosso diventa pregnante, l’allineamento sorprende per la sua orizzontalità, che smentisce la casualità con cui sono disposti i telai, e quasi mette ordine nel caos apparente della sala. Quel “Filo Rosso” capace di mettere in dubbio il vuoto e il pieno, il sopra e il sotto, il tutto e il niente.

La tua ricerca sembra quasi dominata da una concezione estetica che persegue la bellezza oggettiva. Una bellezza radicata nella fisicità delle cose, quindi insita nell’universo e reale, che non deve essere inventata. Nelle tue opere, sveli il bello con l’uso di forme ideali, cogliendo l’incanto dell’energia cinetica e luminosa. Credi che l’artista, piuttosto che interpretare soggettivamente la realtà, debba evocarla, padroneggiando con la propria sensibilità quel rapporto interrelativo tra fenomeni scientifici e fenomeni estetici di cui parlava Dorfles?
Avverto il rischio di solennizzare troppo l’argomento anche se Dorfles era un grande critico e amico. Diciamo che da sempre mi sento a mio agio e stimolata dal mondo della bellezza e delle idee nuove. L’artista contemporaneo lavora nel suo tempo e con gli strumenti fisici e concettuali del suo tempo. Non c’è dubbio che nell’ultimo secolo gli strumenti si siano moltiplicati e i concetti di arte e bellezza si siano evoluti parallelamente, favorendo una relazione tra l’esperienza scientifica e il processo di creazione artistica. In fondo arte e scienza hanno un’affinità che è quella di sorprendere nella scoperta.

Come una scienziata dell’arte, analizzi anche i fenomeni ottici, quelli magnetici e la statica dell’equilibrio, e concepisci opere che si articolano a livello plastico-cinetico, cancellando ogni dimensione figurativa. In questa ricerca, che parte dall’arte programmata, la scienza è stata una musa ispiratrice?
Perché no…? I miei lavori manifestano un’attenzione costante per le discipline scientifiche e le innovazioni che la tecnologia propone. Cerco di costruire sospensioni eccentriche, false prospettive, e di inventare sfasamenti dimensionali, di sperimentare provocazioni ottiche e mentali. L’obiettivo è quello di mettere in evidenza qualcosa di importante su cui riflettere: il disequilibrio, la casualità, l’ambiguità percettiva e il dubbio. Temi, questi, che da sempre mi accompagnano. Ho indagato spesso i rapporti fra caso e programma, fra casualità e regola. Il CASO diventa protagonista di tutta la mia attività, a partire dalle Extrapagine iniziate  dopo il periodo cinetico. Con puntiglio cerco di ritrovare e rivivere l’incanto del foglio di carta e “della piega” che aiuta il foglio a diventare volume e a trasmettere segni curiosamente coerenti e ambiguamente ribelli. In modo semplice, in prova con materiali poveri.

Quirinale Contemporaneo, installation view, photo Massimo Listri

Parlando di provocazioni ottiche e mentali hai sollevato un altro punto importante: la tua ricerca non è astratta ma centrata sulla percezione dello spettatore. Le tue opere sono aperte e observer-dependent, attraverso il coinvolgimento diretto del pubblico, offrono una bellezza soggettiva autogenerante, che concretizza la profezia di Marcel Duchamp: “È lo spettatore che fa il quadro”.
Per me, il coinvolgimento del pubblico è fondamentale. Per questo tutto il mio lavoro vive con il pubblico che osserva. Tra il 1959 e il 1962 ho esasperato questo concetto realizzando la serie Tavole magnetiche, accompagnate dal monito “Si prega di toccare…!” che invitava lo spettatore allo spostamento degli elementi magnetici sulla tavola, sperimentando il Tempo: Prima, DURANTE, Dopo. Ciascuno instaura con le mie opere un rapporto personale, quindi soggettivo. Nel Reticolo Frangibile, il vetro industriale a quadrettatura lenticolare che filtra l’immagine, produce una variazione nella distribuzione dei segni, che mutano al minimo spostamento del punto di vista, coinvolgendo e stimolando lo spettatore a interagire, suscitando interesse e divertimento: “Vorrei che quei segni fossero vivaci e guizzanti come i pesci rossi di un quadro di Matisse”. I segni deformati dal vetro “Quadrionda” guizzano, sfuggono, svaniscono al minimo spostamento dello sguardo. Allo stesso modo, ritengo che anche la percezione del tempo sia relativa e soggettiva.  Così, in Schemi Luminosi Variabili provo a catturare lo spettatore con effetti luminosi in variazione che combinano e scombinano immagini di luce blu, racchiuse a sorpresa in scatole scure, chiamate “oggetti”. Oggetti che già nel nome si distinguono dalla tradizione accademica dell’opera artistica (quadri e sculture), come nella definizione del progetto delle manifestazioni Miriorama con il Gruppo T.

Dopo i tanti riconoscimenti nazionali e internazionali ricevuti dall’inizio della carriera, non ultima la grande mostra antologica ospitata a Palazzo Reale a Milano, quali progetti hai in questo momento?
Ciò che più mi sta a cuore, comunque, è lavorare con i giovani e rendere partecipe e scambievole il rapporto con il mio pubblico, proponendo una partecipazione attiva, sensoriale, emotiva e ludica. La dimensione del gioco per me è molto importante e non va guardata con sospetto né presa poco sul serio. Bruno Munari, che sin dall’inizio teneva d’occhio noi giovani del Gruppo T, dando consigli e incoraggiamenti, mi ha trasmesso l’amore per la leggerezza, per il gioco e per l’ironia. Credo che oggi l’arte debba rivalutare proprio questa dimensione ludica, in quanto sostanziale nell’esperienza creativa. Vorrei che il mondo dell’arte si liberasse dalla solennità e da quell’arroganza profetica che recentemente caratterizza molte esperienze, e invece riacquistasse quella fragranza e freschezza del gioco, che sono estranee al consumo.

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