Che il centenario sia unità cronologica consolidata per registrare bilanci e disegnare prospettive è dato incontestabile dei calendari della critica, che altrettanta cronometrica tempestività trovi riscontro nello spazio espositivo è un orientamento montante degli ultimi anni, come è un crescendo l’approssimazione dello stesso alle trame del campo letterario. Ma la letteratura ha sempre creato immagini. E le immagini sono una delle essenze della letteratura. Così dopo il trittico di esposizioni romane Tutto è santo ordito nel segno del corpo (politico, poetico, veggente) di Pier Paolo Pasolini nel 2022 – in occasione dei cento anni dalla nascita del poeta – questa chiusura del 2023, propone ancora Roma come epicentro espositivo di una celebrazione genetliaca, di cui è luminoso protagonista – l’anti-Pasolini, secondo Carla Benedetti – Italo Calvino.

La proposta di Favoloso Calvino. Il mondo come opera d’arte alle Scuderie del Quirinale si affianca, nel nostro discorso, ad Illustrazioni per libri inesistenti. Artisti con Manganelli al Museo di Roma in Trastevere, quasi un centenario più uno – Giorgio Manganelli era nato nel 1922 – o «più esattamente – come annunciava, sarcastico, il Manga insofferente alle solennità del cento – uno dei centenari». Sono le due esposizioni che pure differenti per dimensione e costruzione, segnano il recentissimo paesaggio museale romano nel nome di un incontro tra letteratura ed arti visive, tra differenti registri di scrittura che si dispiegano tra lo spazio del testo e le stanze del museo, come paralleli ed intersecanti «processi di pensiero visualizzati» (Amman, 1970). Dunque se il museo è stato negli ultimi anni soggetto di un tonificante ampliamento disciplinare determinato anche dalle preziose incursioni di scrittori come Bonnefoy e Pamuk, Le Clézio e Barnes – questo racconta, tra le altre cose, la narrative turn della Museologia di questo primo quarto di millennio -, l’exhibitionary complex assurge sempre più ad affascinante dispositivo di verifica e di visualizzazione di percorsi e passaggi intellettuali. Di questa prospettiva le scritture favolose ed inesistenti, immaginifiche e labirintiche, di Calvino e Manganelli, offrono una fulgida prova producendo un fecondo processo di scambio che trova negli artisti e nelle arti visive una polarità attrattiva irrinunciabile.


Affidato allo sguardo di Mario Berenghi – critico letterario e studioso dell’opera calviniana -, Calvino favoloso (Fabulous Calvino, era il titolo di un articolo di Gore Vidal del 1974), appare come un saggio visivo che offre presa ad una felice osservazione di Raffaele Manica – le sue pagine hanno avviato alla «critica come un modo principesco di via alla scrittura» (2007) -, dispiegando nei due piani delle Scuderie una partitura crono-logica che in un allestimento geometrico, una griglia modulare che scandisce il percorso, lascia affiorare undici ariose e seducenti stazioni dell’universo di Calvino: L’albero, Natura vs Artificio, La guerra, la politica, Ritratti di Calvino, Il reale e il fantastico, Le fiabe sono vere, Tutto il cosmo, qui e ora, Mescolando le carte, L’atlante delle città (in)visibili, Viaggi e descrizioni, Cominciare e ricominciare. Viaggio ed esplorazione dell’universo visivo, dell’idea di spazio e delle radiazioni dello sguardo – «l’unica cosa che vorrei potervi insegnare è un modo di guardare, cioè di essere in mezzo al mondo», scriveva Calvino a François Wahl nel 1960 -, la mostra approfondisce un’idea inquieta e mobile dell’arcipelago espositivo traducendo in forma alcuni scintillanti excursus calviniani, da Le città invisibili (1972) a Palomar (1984), da Collezione di sabbia (1983) a Lezioni americane(1988).

Di questo percorso dai destini incrociati sono insieme figure di snodo e raccordo le opere di artisti come Joseph Cornell e Paul Klee, Carpaccio e Enrico Baj, Toti Scialoja e Fausto Melotti, Domenico Gnoli e Mark Dion, che per Calvino sono alfieri fantastici ed emblemi smaglianti di navigazione in uno spazio vertiginoso ed inquieto. Prologo ed epilogo della mostra, indizi di un rovesciamento circolare, sono affidati all’opera leggera e mentale di Giulio Paolini: Palomar (1998), installata en plen air lungo Via XXIV Maggio, invita ad alzare gli occhi ad ampliare l’orizzonte del visibile; Guardare (2023), rebus visivo, centrato intorno a Malinconia (1912) di de Chirico, ritratto ed autoritratto di Paolini-Calvino, invita a rovesciare lo sguardo verso «l’esterno dell’interno» (Handke). Un interno che è ancora esterno con la figura rarefatta e malinconica di Calvino abitante delle levigate ed impossibili architetture dechirichiane, di cui annotava lo scrittore nel 1983 – offrendo un incomparabile carnet de voyage nell’articolo Accanto a una mostra per la rivista «FMR» – «da quando sono entrato in questa città, la città è entrata in me».

Se Calvino favoloso segue i rivoli e le sottigliezze calviniane, provando a restituire una lezione di forma, un possibile accesso al mondo attraverso la scrittura intesa come ricerca della «radice quadrata della letteratura» (Garboli) e della vita, Illustrazioni per libri inesistenti. Artisti con Manganelli riconfigura il rapporto tra mondo scritto ed immaginario che inquieta il deformato e deformante universo manganelliano. «Creatore di luoghi mentre ne scrive, essendo inesistenti prima di quell’atto» (Manica), Manganelli è stato viaggiatore mentale e sperimentatore del mondo dell’arte, frequentatore irregolare di cui la piccola e raffinata esposizione al Museo di Roma in Trastevere, curata con conoscenza enciclopedica e filologia fantastica da Andrea Cortellessa, restituisce un ritratto anamorfico. Alle undici stazioni/astrazioni calviniane fanno sponda undici artisti (Lucio Fontana, Fausto Melotti, Carol Rama, Toti Scialoja, Gastone Novelli, Achille Perilli, Franco Nonnis, Gianfranco Baruchello, Giovanna Sandi, Giosetta Fioroni e Luigi Serafini) che sono per l’autore di Hilarotragoedia (1964) – fulcro dell’esposizione è proprio il ciclo di ventitré tavole che Novelli dedicò al «trattatello discenditivo» dello scrittore – amici e sodali di ardimentosi itinerari di scoperta sul filo tra esistente e inesistente. Allenato dalle cronache di visite inesistenti confluite nella rubrica Salons tenuta per la rivista «FMR» nel 1986, da cui giunge il titolo dell’esposizione romana riservata ab origine al dipinto Les Phases de la lune II (1941) – pittura im-possibile di un libro altrove del surrealista Paul Delvaux -, Manganelli confessava a Lea Vergine nel 1982 che l’incontro con l’arte «è sempre un discorso su ‘numi’. È sempre un viaggiare tra i numi. […] L’arte è una branca del numinoso».


Di questa condizione di impenetrabilità è possibile via d’uscita uno sguardo obliquo, periferico e laterale – unico e rischioso esercizio critico praticabile -, di cui l’esposizione offre traccia riannodando il filo invisibile tra scrittura e figura, registrando anche le pause e le assenze, come nel caso del testo per l’opera non realizzata da Fontana per la Quinta Porta del Duomo di Milano (1958). Ma nella rete del Manga, nel gioco di riflessione che la mostra istituisce, accanto agli artisti si staglia limpidissimo ed inquieto il profilo critico di Lea Vergine, vestale del ritorno di Manganelli nel territorio magico dell’arte dopo la pausa succeduta alla morte di Novelli nel ’68. Un dialogo ininterrotto quello tra la critica e lo scrittore che viene da Cortellessa interpretato tra le Eterodossie del cuore – titolo del saggio battistrada in catalogo che volge al plurale il titolo che la Vergine appose allo scritto in occasione dei vent’anni dalla scomparsa di Manganelli -, che segna anche il congedo dall’itinerario espositivo nel segno di una rinnovata unità (nelle stanze del museo) tra «i due Grandi Nevrotici che s’incontrano nella sede ominosa del Museo: dove lei trova rifugio dai fantasmi che la braccano e lui invece, goduriosamente, si consegna loro in pasto».
