Una stretta al cuore viene a guardare le immagini delle illustri sale della Galleria Nazionale popolate di elfi e hobbit che rendono omaggio ai 50 anni dalla morte di J. R. R. Tolkien.
E un pensiero intenso va a Palma Bucarelli, intellettuale, raffinata e coraggiosa, prima donna a dirigere un museo in Italia nel 1941 e protagonista di una rivoluzione culturale antifascista che portò artisti come Picasso, Mondrian e Pollock a esporre proprio nella sede di via delle Belle Arti (che oggi tutti conosciamo), rischiando il posto per portare in mostra il grande sacco di Alberto Burri o le opere provocatorie di Piero Manzoni.
Ce la immaginiamo a osservare i disegni delle battaglie epiche della Terra di Mezzo, lei che nella seconda guerra mondiale aveva lottato per mettere in salvo le opere d’arte trasportandole a palazzo Farnese di Caprarola. Che cosa direbbe Palma oggi?
Ce lo chiediamo noi e rivolgiamo la stessa domanda a Cristiana Collu, attuale direttrice (ancora per poco) della Galleria Nazionale di Roma che al suo arrivo nel 2016, con Time is Out of Joint fece innamorare tutti (o quasi tutti) con il suo sguardo innovativo sulla collezione, con il suo stravolgimento temporale sul concetto di museo, fatto di assonanze anarchiche e di connessioni inaspettate. Inaspettate certamente, perché tutto avremmo pensato fuorché di vedere sette anni dopo il Signore degli Anelli nelle sale di questo sacro tempio non solo aperto a tutti ma dedicato alla cultura di tutti.
E che cosa rappresenta Tolkien nella storia della nostra cultura? Ben poco, a dire la verità. Tanto si è detto in questi giorni sulla discutibile decisione del Ministero di promuovere una mostra su quello che a detta di molti è considerato lo scrittore idolo della destra, “un cattolico e un autentico conservatore che ha difeso i valori tradizionali dimenticati in Occidente”, per dirla con le parole di Gennaro Sangiuliano.
Ma la domanda che anche la stampa estera si è posta, e cioè il perché l’autore inglese sia così venerato dalla Meloni e dalla sua compagnia dell’anello, in realtà poco ci interessa. Il vero dilemma su cui ancora poco ci si è interrogati è cosa c’entri Tolkien con la Galleria Nazionale e perché si sia deciso di mortificare in un modo così evidente un’istituzione così piena di storia e di cultura.
Cristiana Collu scomoda grandi pensatori come Hans Blumenberg e Donna Haraway nei suoi saluti in occasione dell’apertura della mostra ma tutto ha il suono di una giustificazione, una grandissima bugia vestita bene per trovare un senso a un’operazione politica che tutto è fuorché sensata.
“D’Alema, di’ soltanto una cosa. Anche non di sinistra. Una cosa di civiltà”, diceva Nanni Moretti in Aprile. E allora, Cristiana, visto che in fondo sappiamo che neanche tu ci credi, perché non ti sei opposta?
Un altro pensiero va ai ragazzi, ai giovani, agli studenti delle scuole, che visitano per la prima volta le grandi collezioni, le opere del nostro passato e che meritano di più di una mostra di Tolkien per capire il senso profondo dell’arte e la storia che abbiamo attraversato, di sicuro altrettanto epica di quella fantasy raccontata da Tolkien.
“Figli Rohan, fratelli miei – invocava Pino Insegno in chiusura della campagna elettorale prima del voto del 25 settembre – verrà il giorno della sconfitta, ma non è questo il giorno”. E invece il giorno della sconfitta culturale è forse arrivato: l’anniversario dei 50 anni dalla morte di Tolkien sarà per sempre ricordato come l’anniversario della morte della Galleria Nazionale. E speriamo che sia solo una morte apparente.