L’importanza della storia. Una raccolta di racconti di Danielle Evans

Razza, cultura, sesso, dominano la nuova raccolta di racconti edita da minimum fax: personaggi e protagoniste evidenziano la discriminazione insita nel tessuto sociale americano

In Elogio del margine bell hooks racconta di una visita a una galleria d’arte di San Francisco all’interno della quale l’allestimento realizzato da un monaco buddista, “animato da un senso estetico modellato da credenze antiche”, le ricorda come “gli oggetti non sono privi di spirito” e come guardare a uno spazio significhi costruirlo, abitarlo. È questo il concetto di estetica che l’autrice statunitense sposa, dopo averne verificato le instabilità interne ripercorrendo alcuni tratti della vicenda artistica afro-americana (l’esperienza del Black Arts Movement, ad esempio): non una teoria del bello, ma “un modo di abitare lo spazio”, “un modo di guardare e trasformarsi”.

Un concetto, quello di estetica, che bell hooks situa all’interno dell’esperienza afro-americana, la casa della nonna, uno spazio di libertà sottratto alla schiavitù, ancora in una dinamica propositiva che lega il bello alla storia: «Il bello va inteso come una forza da costruire e immaginare. Noi giovani venivamo a sapere dai vecchi cosa avesse significato passare dalla schiavitù a questo spazio libero e capivamo che era nostro compito creare un mondo capace di rinnovare il nostro spirito, di renderlo vitale. In quella casa c’era il senso della storia».

Il ruolo che l’arte e l’espressione artistica hanno avuto nel processo di emancipazione della comunità afro-americana è nodale per bell hooks, tanto da rappresentare la strategia più efficace per difendersi dalle insidie infami dell’ideologia suprematista bianca; l’idea che il bello, come espressione collettiva integrata nella vita di tutti i giorni sia alla base dell’estetica afro-americana fa il paio con la convinzione che “produzione culturale e espressività artistica” siano tra i modi migliori per “mantenere i legami con il passato”.

Una struttura tripartita e interconnessa, questa, che funziona come sistema complesso e in continua riprogrammazione, i cui gangli, arte, spazio e storia agiscono, ad esempio, anche nell’esperienza di Theaster Gates. Black Chapel (2019-20) è un’installazione composta da una serie di «artifacts of blackness from my life» (sculture, documenti, ready-made, insegne pubblicitarie) che riempiono e definiscono lo spazio espositivo dell’Haus der Kunst di Berlino, “oggetti non privi di spirito” che una volta attivati insinuano la storia della comunità nera, fatta di gioie e colori, ma anche e soprattutto di disperazione, soprusi e silenzi.

Il rapporto con la storia non può sottrarsi alla dimensione dell’archivio, inteso come spazio di messa in discussione della narrazione ufficiale, come un sistema aperto dove il concetto di verità assoluta è costantemente esposto all’eventualità della rettifica. È questo il senso della mostra The Black Image Corporation (Fondazione Prada, Milano 2018-2019), un attraversamento, tradotto in forme installative, degli archivi della Johnson Publishing Company – «una collezione di oltre quattro milioni di immagini che ha contribuito a definire i codici estetico-culturali dell’identità afroamericana contemporanea» – un’operazione atta a indagare «i temi della bellezza e del potere femminile nero», proponendo, per via di oggetti e immagini fotografiche, una contro-narrazione del corpo femminile, quello stesso corpo che, ancora secondo bell hooks, rappresenta uno dei punti cardine dell’”apparato culturale razzista”. In questo caso lo spazio, rimodulato, dell’archivio e le sue componenti interne diventano il teatro di un’altra storia che, come dice l’artista, è sconosciuta a chi non appartiene alla sua comunità.

Tutti questi temi, e questo programma di connessione tra arte, spazio e storia, sembrano informare e nutrire la scrittura di Danielle Evans, talentuosissima autrice statunitense, presente da qualche settimana nelle librerie italiane con L’ufficio delle correzioni storiche, raccolta di racconti del 2020 ora tradotta (da Assunta Martinese) e pubblicata da Minimum Fax. Anche nel caso di Evans ci troviamo di fronte a una struttura che, per il tramite letterario, interconnette questioni di razza, cultura, sesso, centralizzando l’universo femminile e proiettando ogni dinamica narrativa sul grande schermo della storia; la sua sembra un’installazione a 7 canali – il numero dei racconti – attraverso i quali i personaggi e le protagoniste appaiono come ingranaggi spostati da un meccanismo sociale tradizionale, quello americano, che per quanto venga sempre definito un esempio di civiltà e democrazia è continuamente in grado di raggiungere picchi di follia e discriminazione senza precedenti. Ancor di più se a essere attraversata, nei suoi numerosi strati tematici e cronologici, è la storia dei neri.

Nel racconto che dà il titolo alla raccolta, ad esempio, Evans propone una brillante critica al fenomeno della cancel culture attraverso l’istituzione di un organismo, l’Ufficio di Storia Pubblica (ribattezzato sarcasticamente “ufficio delle correzioni storiche”), attraverso il quale un team di storici interviene concretamente sul tessuto sociale americano per riparare mistificazioni, errori e disinformazione, seguendo precise direttive: «Il nostro compito era proteggere la memoria storica e non attaccare briga (Direttiva 1) o correggere le interpretazioni che le persone davano alle notizie di cronaca recenti (Direttiva 2)…correggere le informazioni sbagliate nel modo più rapido e gentile possibile (Direttiva 3)».

È nelle pieghe della storia, nei documenti degli archivi, nel silenzio di luoghi trasformati (la prigione di Alcatraz, ad esempio), nella potenza delle immagini (la bandiera confederata, i suoi effetti, le credenze ad essa collegate) che le protagoniste dei racconti di Evans trovano il modo e le opportunità per ricucire i fili della memoria, per sabotare, da una prospettiva nera di sofferenza sedimentata, il ciclo lineare della storia e i suoi meccanismi di acquisizione di senso, perché – scrive Evans – «il passato non è morto e sepolto. Non è nemmeno passato», e nel passato bisogna spesso scavare per contestare il presente e riscattare il futuro.

Se, come dice bell hooks, parlare e parlare dai margini significa compiere atti di resistenza, i margini scelti da Evans sono quelli dell’espediente letterario, margini che si fanno fisici prima e culturali poi quando le protagoniste dei suoi racconti sono costrette a combattere i soliti pregiudizi e a scavalcare le solite barriere socio-culturali che affliggono ormai da troppo tempo quella comunità. Ogni racconto ha, tra l’altro, un suo distretto dell’avvincente dove la suspense è resa tangibile da una scrittura limpida, diretta, senza fronzoli, capace di modulare il pathos intervallandolo a brillanti guizzi ironici; una scrittura in grado di parlare anche quando non dice e che usa i finali non come svolte risolutive ma come aperture di fronti.

C’è un aspetto, infine, il più importante, che sembra collegare la narrativa di Evans al pensiero, ancora una volta, di bell hooks, una sorta di postura autoriferita a scopo di autocritica: la storia dei neri, e soprattutto delle donne nere, è storia di ingiustizie, vessazioni, bestialità subite e con ogni probabilità mai riparabili, ma il riscatto ora è possibile solo attraverso la contestazione critica e la costruzione di “uno sguardo oppositivo” non calibrato sulla rigidità interna e su un principio di aprioristica esclusione, ma in grado di stabilire un dialogo con i sistemi dominanti per poterli eventualmente “decostruire, demistificare, sfidare e trasformare” (bell hooks) e per poter dare pieno e legittimo sfogo a quello che Theaster Gates riconosce come “il potere insito nell’esperienza nera”.

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