«La creazione artistica e la pratica dell’analisi risultano essere legate da una straordinaria assonanza, ossia sono due pratiche simbolico-immaginarie concernenti ciò che resiste al linguaggio». È questo l’enunciato da cui muove Dal taglio, la luce. Passi di Alfredo Pirri, il nuovo testo di Valentina Galeotti, psicologa e psicoterapeuta a orientamento psicanalitico lacaniano. Riprendendo gli studi sulla sublimazione, Galeotti pone quindi questa premessa: l’opera d’arte è uno strumento con cui è possibile «costeggiare, bordare» ciò che Lacan ha nominato come Reale.

Pubblicato nel maggio scorso da Castelvecchi all’interno di Cromie – collana di arte e psicanalisi –, Dal taglio, la luce nasce dalle suggestioni ricavate da Valentina Galeotti durante la conversazione dal titolo Tracce. Il lavoro dell’opera d’arte, tenutasi il 25 giugno 2022 tra l’autrice e Alfredo Pirri. E sono infatti gli spunti di dissertazione che Galeotti offre a Pirri a scandire il volume, che si interroga sulla temporalità e sul rapporto con lo spazio dell’opera, ma anche in merito alla sua carica di perdita di centro e sull’elemento della distanza presente in essa.
Tutte riflessioni, queste, che si originano dalla preistoria dell’opera d’arte, in particolare a partire dall’elemento dello spazio rispetto al quale è stata pensata. Passi è infatti un’installazione realizzata da Alfredo Pirri per la prima volta nel 2003 presso la Certosa di San Lorenzo a Padula, nell’ambito della mostra collettiva Le opere e i giorni a cura di Achille Bonito Oliva. La mostra prevedeva che ogni artista occupasse uno spazio. E Pirri sceglie di occuparne uno residuale, seppur importante: un corridoio. Dunque un luogo di transito, ma anche di collegamento tra altri due spazi, ovvero una delle abitazioni dei monaci e la rispettiva cappella privata.
È proprio rispetto all’elemento dell’attraversamento che i passi assumono centralità. La suggestione per cui l’andirivieni tra i due luoghi agisca sulla personalità di chi lo compie è incarnata dalle lastre di specchi posizionate sul pavimento. Ma cosa accadrebbe se questi specchi, sotto il peso dei passi, si rompessero? E da qui, le rifrangenze della luce sullo spazio si ritrovano stravolte, ed emerge poi il suono della rottura e il senso di vuoto.
La rottura dello specchio è un fatto centrale nella psicanalisi, in particolare in seguito al contributo di Lacan. È quindi un elemento centrale nella riflessione di Galeotti, ma che emerge già dalla conversazione sopradetta, per la cui rilevanza si trova inserita nel libro. L’esperta, prima di dedicarsi all’opera di Pirri, dà avvio alla sua riflessione ripercorrendo gli studi sull’oggetto e sul suo rapporto con la sublimazione. Muovendo dal presupposto per cui l’oggetto, di carattere simbolico, non può essere raggiunto dal soggetto, spinto dal desiderio di coincidervi, nel testo si sottolinea come una possibilità di approssimazione ad esso consista nella sublimazione. Per Lacan, questa consiste in un processo di aspirazione alla Cosa, un ideale rappresentato dall’oggetto che – come anticipato – non può essere raggiunta e dunque non rappresenta una meta. E quindi «Lacan sembra suggerire che [il soggetto] può bordarla […], elevando l’oggetto che la rappresenta alla sua Dignità».

È proprio questa argomentazione a offrire una prima coordinata di interpretazione di Passi: è un’opera che borda la Cosa tramite l’attraversamento. E qui il possibile accostamento alla pratica psicanalitica, in quanto ciò che accade in Passi è l’emblema di quella via trasversale che circoscrive il Reale, indicibile se non attraverso la messa in atto una pratica simbolico-immaginaria, come nella stanza d’analisi.
Ma nella stanza d’analisi si verifica anche un altro fenomeno centrale, ed è la rottura. Il soggetto in analisi è partecipe della propria scalfittura e poi della rottura della propria superficie. E così accade in Passi, dove si infrangono più elementi: «la superficie specchiante, l’immagine del soggetto e l’immagine riflessa del luogo in cui l’opera sorge. Quello che vi era prima non vi è più». «E con la rottura», aggiunge Galeotti, «l’artista Pirri ha introdotto la morte», ossia il carattere perituro dell’opera, il suo non essere mai in salvo, così come il soggetto in analisi.
Galeotti riflette anche sullo spazio con cui l’opera interagisce. Associabili al terrain vague e alla radura heideggeriana, gli spazi in questione – da quello scelto nella Certosa di Padula agli altri che hanno ospitato l’installazione – sembrano essere luoghi senza aspettative, come per l’appunto un corridoio. In altri termini, luoghi non saturi, ma che proprio per questa non saturazione invitano il soggetto a bordarli. A tal proposito, Galeotti ricorda le parole di Lacan, per cui «ogni arte si caratterizza per una certa modalità di organizzazione attorno al vuoto». Eppure, si tratta sempre di luoghi in cui si incontra la Storia. Da qui il processo di risemantizzazione: la rottura, introducendo una discontinuità, fa sì che nello specchio si rifletta un luogo nuovo, tra le crepe e le rifrangenze della luce.


Passi può andare sotto la denominazione di opera aperta, sostiene Galeotti, ossia «un’opera che si presta a essere attraversata, usata, ma mantenendo comunque il suo statuto». E l’opera di Pirri è solcata dal visitatore stesso. In altri termini, è un’opera che non è mai finita e svelabile nella sua completezza, dunque aldilà di quella che molti hanno definito arte consolatoria. L’esperta riconosce che «la direzione, infatti, dello specchio infranto non si mostra lineare, prevedibile […], ma al contrario è radiale, dispersiva», e aggiunge che Passi «fuori-esce da una logica centrale e dunque eccentrica, si mostra piuttosto in una logica femminile de-localizzata […] che ex-siste».
L’opera di Pirri presenta anche una temporalità molto peculiare, la cui analisi si connette a quella sullo spazio in termini simbolico-immaginari. E questa analisi è molto fruttuosa anche rispetto alla distinzione dei momenti in cui l’opera si struttura, ovvero assemblaggio delle lastre, rottura da parte di Pirri e poi da parte del visitatore che le solca.
C’è un ultimo aspetto da ricordare, ed è quello della distanza. «Con lo specchio il soggetto esperisce un effetto peculiare, ossia l’opposizione tra l’immagine ideale del corpo e […] il resto del corpo reale. In altre parole, il soggetto incontra una distanza perturbante». E l’incontro con questa discontinuità si traduce in un suono. La registrazione del suono/voce viene interpretata da Galeotti come un aspetto decisivo dell’opera: a suonare è la crepa e il suo trasformarsi in altro dalla rottura, un cicatrizzarsi.