Pic-Nic Affair porta OLTREMARE di Massimo Uberti in Sicilia

Prima tappa dell’opera neon di Massimo Uberti, che da settembre risale l’Italia in occasione dei 10 anni della galleria Operativa Arte

A Brucoli, in provincia di Siracusa, la linea dell’orizzonte ospita un nuovo luogo, dell’occhio e della mente. Parliamo dell’installazione neon OLTREMARE concepita dall’artista Massimo Uberti per l’eccezionale cornice della baia di Catania – con l’Etna a fare da placida sagoma di sfondo – in occasione dell’evento esperienziale realizzato da Pic-Nic Affair, realtà dedita alla creazione di esperienze sensoriali che ruotano intorno all’arte, alla musica e alla natura.

L’iniziativa siciliana segue una serie di occasioni collettive di interscambio personale che supera la mera conoscenza per raggiungere l’armonia di una comunità di “cittadini” che, di volta in volta, condividono l’esperienza di un medesimo luogo.

Per l’occasione è stata interpellata una persona che della creazione di spazi poetici ha fatto una cifra stilistica: Massimo Uberti, artista internazionale d’origine bresciana che già da diversi anni, oltre a una vasta gamma di linguaggi, ha sviluppato una personale poetica della luce che si muove agevolmente fra l’architettura, lo statement e l’installazione site-specific. Ecco, allora, che lo splendido orizzonte del Mediterraneo si è arricchito di una nuova mirabile visione che sembra guardare oltre, oltre il mare, OLTREMARE.

MB: OLTREMARE appartiene a quell’area del tuo lavoro che utilizza la parola per creare nuove narrazioni, nuovi significati per antichi contesti: mi viene in mente Parran Faville (Verona, 2022), Lost (Milano, 2020), Spazio Amato (Capalbio, 2020) realizzato per Hypermaremma. In questi neon l’architettura della parola “esplode” e ingloba qualcosa di più grande dello spazio fisico, invade il campo semantico. Come nasce OLTREMARE e il suo posizionamento geografico e di significato?
MU: Innanzitutto, quando sono stato invitato da Carlo Pratis (Hypermaremma, Operativa Arte Contemporanea) per realizzare questa installazione ho subito capito che mi sarei confrontato con un contesto verde, marino e che quindi avrei dovuto trovare una parola che contenesse più elementi, il concetto di orizzonte su tutti. Vorrei fare una premessa: l’idea di fondo è quella di abitare ma in un atteggiamento “poetico”. Quando utilizzo una parola, spesso cerco di comunicare qualcosa di specifico in un contesto specifico – il più delle volte verde, a volte urbano – così che queste installazioni, nel momento del tramonto, possano generare un luogo nuovo.

MB: L’idea di orizzonte è talmente forte che viene perfino superata. Sembra quasi che l’opera ti incoraggi ad andare al di là di quella linea.
MU: È così, pensiamo anche solo al colore: l’oltremare si chiama così proprio perché venendo dall’Oriente proveniva da lontano, da oltre-il-mare. Già in questa dimensione c’è l’idea di superare l’immagine statica dell’orizzonte e andare più avanti.

MB: Questa tua poetica della luce, per paradosso, viene storicamente da un’industrializzazione forzatamente invasiva, quella che ha prodotto negli anni l’inquinamento luminoso, eppure nel tuo lavoro la direzione è esattamente opposta: armonizzarsi con la natura, diventare fatto positivo, creare qualcosa invece di negarlo. In questa capacità di trasformazione vedo un forte legame con la community di Pic-Nic Affair, che crea un’esperienza in armonia con l’intorno naturale, sociale e ambientale.
MU: Tenendo conto che questo progetto si definisce come comunità migranti che si ritrovano in un’idea di abitare inteso nel senso di “stare al mondo”, il mio è stato un contributo all’interno di questa filosofia: basso impatto ambientale, basso consumo energetico, armonizzazione col territorio nella creazione di questo concetto di Trans-romantico che è stato tema di questa edizione del festival.

MB: Com’è stato lavorare con Pic-Nic Affair sulla scia del loro approccio libero e trasognato?
MU: Mi sono trovato bene perché è stata una commissione molto libera, ho potuto lavorare senza imposizioni. Lo definirei una sorta di mecenatismo libero dai vincoli. Trovo anche molto bello che, da settembre, OLTREMARE inizierà la sua risalita della Penisola, viaggerà, posizionandosi in diversi luoghi d’Italia e disegnando o, meglio, ri-disegnando nuovi paesaggi. Questo aspetto lega molto il mio lavoro al loro format.

MB: Credi che in questo viaggio l’opera si caricherà di significati che la modificheranno, in un certo senso?
MU: Ci sarà sicuramente un continuo rimescolamento degli elementi che l’hanno generata. Un paesaggio diverso, in una città diversa creeranno un momento, una visione e un’opera diverse.

MB: Da questa capacità di leggere il reale circostante mi piacerebbe entrare più a fondo nel tuo lavoro: uscito dall’Accademia di Brera con una formazione da pittore, realizzi la tua prima mostra personale con un’opera video nel 1990, da lì ti servi di numerosi media fino poi a trovare la strada del neon. Uno strumento che, in primis, hai utilizzato per segnalare qualcosa di contingente, di piccolo rispetto allo spazio, e che poi hai portato sul piano dell’architettura e infine hai sconfinato verso una meta-architettura, un luogo di significato. Come hai portato avanti questo processo? È stato un percorso più tecnico o più filosofico?
MU: Direi che è stato entrambi: dal punto di vista tecnico e artistico c’è un’evoluzione: pittura, fotografia, dia-proiezione, video-proiezione, oggetti luminosi sempre più “solidi” per dare corpo alla luce. Parallelamente, però, c’è anche evoluzione sul piano del significato, perché dal punto di vista dei contenuti il discorso andava sempre più implementandosi. Questi due aspetti si sono tenuti stretti, mentre avanzava la ricerca artistica avanzava anche la ricerca semantica.

MB: Prima parlavi di comunicare qualcosa di specifico in un contesto specifico. È lì che viene fuori il valore autonomo della parola?
MU: Certo. La parola scritta, una volta messa al mondo poi cresce da sola. Vedi lavori come Lost, oppure Today I Love You (Amsterdam, 2020). Lost “esce” a Milano una settimana dopo la fine del primo lockdown, su un muro di mattoni nella Martesana (quartiere orientale della città di Milano n.d.r.); all’epoca l’opera fece molta strada sui social network, perché ogni immagine della scritta che veniva postata era ricca di contenuti, pensieri e riflessioni diversi, spesso profondi. Non è mai stata usata per divertimento: immagina di uscire dopo quei mesi tremendi e leggere quel sentimento di spaesamento che tutti vivevamo.

Similmente, Today I Love You – vincitrice di un bando di concorso internazionale – è stata installata nella darsena di fronte alla stazione centrale di Amsterdam, e poi, da lì, ha viaggiato in moltissime capitali mondiali (Shangai e Washington DC fra le altre n.d.r.) fino a tornare permanentemente proprio ad Amsterdam. Anche in questo caso, durante il primo lockdown, mi chiamarono per chiedere la concessione per mettere la scritta sulla facciata del policlinico Amsterdam UMC, e così è diventata un messaggio di speranza. Dopo diversi anni, il direttore dell’ospedale, andando in pensione, decise di acquisire l’opera donandola al Policlinico stesso come ringraziamento per i suoi anni trascorsi lì. Questi sono due lavori accolti per quello che significavano, che sono stati capaci di superare la questione artistica.

MB: Pur muovendoti in uno spazio che è quello architettonico e scultoreo, opere come Spazio Amato Orbita (Chatillon, 2022) ragionano in modo pittorico, confrontandosi con l’ambiente anche sulle due dimensioni. Pensiamo poi alla luce come grande campo di battaglia dell’Arte Moderna. A quale disciplina senti maggiormente di appartenere? 
MU: Non mi sentirei di escludere né una né l’altra. La mia formazione pittorica viene dalla grande Storia dell’Arte, per questo utilizzo un po’ tutta l’ampia gamma di soluzioni disponibili: dalla pittura, alla fotografia, alla ceramica, ai tessuti. Mi sento come uno scultore memore di una tradizione pittorica importante. Una cosa che ripeto spesso è che ritengo il disegno l’elemento germinale di ogni lavoro, il luogo dove nasce la scintilla dell’ingegno. Il disegnare, negli artisti del passato, mi ha sempre colpito molto perché è una sorta di progetto del capolavoro, un mettere nero su bianco la prima idea di qualcosa, un luogo dove si genera una forma in grado di ospitare un concetto.

MB: Se dovessi immaginare il momento apicale di questo tuo percorso, quale sarebbe l’ultimo tassello, realizzare una città di luce?
MU: Questa è l’ambizione più grande sapendo già che rimarrà un’utopia. Il lavoro dell’artista, d’altronde, è proprio quello di creare qualcosa che prima non c’era, come quando si fa un segno su una carta bianca. La costruzione della città luminosa, bianca o ideale che sia, è l’obiettivo finale, è ciò per cui lavorerò fino alla fine pur senza sapere il risultato, tenendolo come obiettivo.