Percorrendo la Strada di Macchiatonda (Capalbio) in zona Terre di Sacra si incontra un gigantesco bagliore che accende il panorama: si tratta di un fontanile di sapore Barocco rivisitato, acceso da un giallo vivo che gli conferisce un aspetto sospeso, surrealisteggiante. L’opera agricola – un abbeveratoio – che in quel luogo ha abitato per circa cent’anni ora cede il passo a una nuova visione. L’intervento si deve al lavoro di raccordo fra arte contemporanea e territorio maremmano operato da Hypermaremma, associazione fondata e promossa dai galleristi Carlo Pratis, Giorgio Galotti e del collezionista e manager Matteo d’Aloja, che per l’occasione hanno collaborato con la centenaria tenuta Terre di Sacra.
Giuseppe Ducrot, scultore dall’esperienza pluridecennale, è l’autore dell’imponente fontanile in terracotta invetriata che ingloba il preesistente abbeveratoio di inizio secolo scorso. Il colosso in ceramica evoca immediatamente una sospensione temporale metafisica generata dal contrasto con la quinta scenica del territorio: in lontananza le vacche maremmane pascolano a due passi dal mare nell’intenso verde della tenuta. Il giallo “Ducrot” del Fontanile, insieme alle forme sinuose e dinamiche realizzate a fasce, troneggia sulla Strada di Macchiatonda astraendosi dal contesto e modificando la visione circostante. Un piccolo miracolo già iniziato dalla Bottega Gatti di Faenza, che nonostante la tragica inondazione che ha colpito l’Emilia-Romagna poche settimane fa, ha portato a termine queste ceramiche con straordinaria abnegazione.

MB: Giuseppe, la tua passione per il lavoro su immagini che definisci “ipercollaudate” – decorazioni sacre, mezzibusti classici ecc. che, realizzate innumerevoli volte nella storia, sono state così perfezionate e codificate – viene qui a ribaltarsi in un lavoro che è invece tratto da una moltitudine di riferimenti diversi sintetizzati insieme. Il grande campionario delle decorazioni scultore delle ville nobiliari italiane del Settecento utilizzato per realizzare il Fontanile viene fuori come un unicum innovato e aggiornato alla visione contemporanea. Come hai approcciato un lavoro così autonomo rispetto al territorio ma altrettanto ricco di riferimenti stilistici?
GD: Innanzitutto ho cercato di sfruttare il contrasto fra la struttura agricola preesistente, dunque per definizione “non aulica”, e la nuova sovrastruttura di carattere architettonico vicina alla decorazione scultorea barocca e neoclassica dell’alto Lazio e non solo. Alcuni punti fissi sono facilmente individuabili, vedi l’area centrale con rappresentazioni araldiche o mascheroni e le volute o i vasi laterali. Anche in questo territorio sono rintracciabili questi motivi: passando per Monte Romano mi sono imbattuto in una villa Barocca e nel Fontanile del Mascherone, sono riferimenti che abitano queste terre da secoli.
MB: Questa capacità di trasformare il contesto dell’opera, di passare da un registro a un altro e in qualche modo farla risaltare rispetto all’intorno, appare come una chiave di volta del tuo lavoro. Lo notavo in estremo nel mezzobusto rosso di San Carlo Borromeo esposto a Palazzo Borromeo nel 2021.
GD: In parte è vero: ho voluto giocare sul contrasto stilistico e sull’impatto visivo scollegando l’opera dal contesto architettonico, dall’idea di giardino, dal paesaggio limitrofo. Se si prende Villa Lante a Bagnaia, il Parco dei Mostri di Bomarzo o Palazzo Farnese a Caprarola si nota la presenza di un contesto realizzato ad hoc; il mio lavoro cerca, invece, di tirarsi fuori da uno scenario previsto. Di tanto in tanto nella campagna laziale si possono incontrare dei cippi: si tratta di punti di segnalazione dei confini che spesso recano stemmi papalini o vessilli. Ne ho recentemente trovato uno fra Magliano Sabina e Gallese Scalo, realizzato interamente in travertino e piantato nel campo che costeggia la strada provinciale. Avendo perso il loro contesto originario, questi cippi assomigliano a visioni metafisiche, sono come una frase in latino usata in un discorso d’oggi, hanno un sapore sospeso, quasi perduto. Il Fontanile l’ho pensato un po’ sulla scia di questa sensazione di spaesamento.


MB: L’ultimo strato di questo layering, che viene fuori già in fase progettuale, sembra essere il colore. L’impianto cromatico pone un ultimo accento in direzione opposta al tuo lavoro di ricerca, tendendo ad astrarre l’opera, a spostarla su un piano che si allontana dal reale.
GD: Con il colore tento di coniugare l’onirico e il metafisico muovendo verso lo straniamento, l’alienazione e creando un interrogativo ottico. Potremmo dire che si tratta di una componente rilevante della mia cifra stilistica, si può trovare già nella statuaria più classica dei lavori precedenti.
MB: Questa parte “creativa” del tuo lavoro si coniuga in maniera armonica con la parte più “artigianale”, con il piacere realizzativo, tecnico e manuale che hai sviluppato sin dagli esordi. Come si passa da un modus operandi così fisso nelle modalità a un carattere, invece, tanto personale?
GD: Lo scarto arriva nel tempo. Negli anni Novanta ho cercato di assecondare il discorso mimetico: ad esempio, quando affronti busto o statua devi, prima di tutto, raggiungere un canone e solo in seconda battuta puoi fare tua l’opera e personalizzarla. Nel Fontanile, invece, il processo muove già a partire dal piano architettonico, che per me è inseparabile da quello figurativo o scultoreo. Nella decorazione del boutique hotel Vermelho, che ho recentemente ultimato a Melides, dove non ci sono né immagini e né statuaria, si possono già notare due fiumi in stile Tevere e Aniene di impianto classico realizzati con questa tecnica a fasce. Sviluppando questo discorso si arriva poi al Fontanile.
MB: Trovo il tuo lavoro molto coerente sul piano visivo, dagli animali alle decorazioni liturgiche, ai busti o le teste. Esiste un filo conduttore che, secondo te, rende questa coerenza all’occhio?
GD: Esiste la necessità di aggiornarsi. Dovessi fare un’opera in marmo lo stile cambierebbe, e così con il bronzo, pur mantenendo la stessa mentalità. La ceramica ha un modo ancora diverso di trattare la materia; in questo momento nel mio studio ci sono una nuova serie di opere realizzate a caolino nelle quali il modellato si spinge in una direzione completamente diversa rispetto ai lavori precedenti. Ritengo fondamentale portare il discorso del Barocco e del Neoclassico verso il Novecento: Leoncillo, Arturo Martini, Lucio Fontana, la recente arte ceramica, ma anche il design dagli anni Trenta agli anni Settanta, fino poi all’artigianato.

MB: Qual è allora il tuo rapporto con quelle che sono state considerate per secoli “arti minori”?
GD: Sono interessato a questi mondi, li reputo inscindibili e non mi viene facile nemmeno creare una scala gerarchica: un’opera riuscita è un’opera riuscita. Prendi un’automobile, quando si dice che una scultura funziona stiamo facendo un discorso che vale anche per la meccanica. Vito Cipolla diceva sempre che la scultura deve girare, mantenersi in movimento. Chiaramente noi lo applicavamo all’idea di busto.
MB: All’interno del circuito di Hypermaremma si lavora quasi sempre in maniera ambientale, quasi architettonica: rispetto ad artisti che si cimentano per la prima volta con il territorio tu sei arrivato a questo lavoro da veterano, hai avuto possibilità di lavorare su un qualcosa che apparteneva già al tuo percorso.
GD: In effetti è stato tutto molto veloce, ho individuato subito il modus operandi, già dal modello in creta, e poi con tutta la ginnastica mentale fatta in questi anni conosci in anticipo l’approccio al lavoro. La cosa che mi ha stimolato di più è stata non doversi adattare a volumi precedenti, come invece accaduto a Melides, dove porte e finestre non erano disegnate da me. Per dirla in breve mi era mancata la Sezione Aurea. Qui l’ho potuta creare da me, perché non essendoci vincoli ho gestito in autonomia il rapporto orizzontale-verticale, vasca-muro; tanto che alla fine abbiamo alzato la parete di fondo di oltre un metro e mezzo. In questo senso collaborare con Hypermaremma su questo luogo mi ha permesso di dominare lo sazio. Ricordiamoci che architettura e scultura sono cugine strettissime, lo scultore ha sempre l’occhio architettonico e viceversa, perché si va sempre a modificare lo Spazio. Quel che c’è intorno influenza sempre la visione dell’opera.
MB: Il tuo sogno di fare una chiesa tutta in ceramica si è avvicinato con questo lavoro?
GD: Resta ancora un sogno, magari fare una grande facciata bicroma come se ne conoscono molte, però questo lavoro un po’ mi avvicina. Credo sia il sogno nascosto degli architetti quello di toccare la materia senza far eseguire a terzi l’oggetto architettonico, avendo rapporto diretto con l’edificio come fosse un quadro.
