Contestabile, la mostra che chiude il ciclo espositivo del Contemporary Cluster prima dell’estate

Nello spazio all'interno di Palazzo Brancaccio a Roma, tre curatori riflettono sul presente attraverso una selezione eterogenea di artisti

Si è concluso il 12 luglio Contestabile, l’ultimo capitolo espositivo prima dell’estate dello spazio romano Contemporary Cluster.

Con un titolo ambivalente, il progetto lascia spazio a domande, riflessioni, che riguardano il contesto ma che richiamano anche la contestazione, la critica, il dibattito.

Nello spazio labirintico ospitato all’interno di Palazzo Brancaccio, le sale si sono animate grazie al contributo dei curatori Davide Silvioli, Niccolò Giacomazzi e Davide Mannocchi che hanno presentato al pubblico artisti più e meno noti della scena nazionale e internazionale: Alessia Armeni, Genuardi/Ruta, Monica Mazzone, Mattia Sugamiele, Dario Carratta, Flavio Orlando, Wang Yu Xiang, Valerio D’Angelo, Davide Serpetti.

Sala 1, Sugamiele_Mazzone

In un percorso fatto di contrasti e giochi di opposizioni, tele, installazioni e sculture hanno occupato le pareti e i pavimenti dialogando pacificamente tra loro ma senza per questo portare avanti un’unica soluzione interpretativa.

Partendo dal titolo, i tre curatori hanno infatti sviluppato autonomamente tre diverse conversazioni, trovando per ognuna di loro un filo conduttore e restringendo così il campo di indagine.

«L’idea di un’esposizione collettiva tripartita – spiega Mannocchi – guidata da un nucleo di tre curatori, prende piede dall’assioma secondo cui un’unica cornice, già contenitore di esperienze e funzionalità differenti che ne hanno determinato la storia, diviene spettro attraverso il quale la luce filtra di volta in volta in maniera inedita».

Sala 1, Genuardi/Ruta

Con Permeabile, Davide Silvioli ha riunito le opere di Alessia Armeni, Genuardi/Ruta, Monica Mazzone e Mattia Sugamiele in una commistione di estetica e concettuale votata all’ibridazione, che rispetta le singolarità ma che allo stesso tempo genera consonanze e affinità linguistiche, formali, cromatiche o di significato.

Il rapporto tra privato e collettivo è stato invece indagato dal lavoro di Nicolò Giacomazzi che ha riunito la sua selezione di artisti sotto il titolo al contempo evocativo: La distanza tra pubblico e privato è di 37 cm. Una nuova creatività collettiva volta alla condivisione e alla relazione tra singoli individui è auspicata e ambita proprio attraverso un’analisi del contesto. “Lavorare su un contesto – si legge nelle parole del curatore – vuol dire intervenire su una determinata comunità e imporre il proprio operato come punto di riferimento per le altre. E grazie al lavoro di Dario Carratta, Flavio Orlando e Wang Yuxiang il tentativo suggerito è stato quello di creare un’apertura, di abbattere una barriera tra i concetti di artificiale e naturale, emotivo e razionale, pubblico e privato, creando i presupposti per comprendere il presente e mettere in luce la sua dimensione sociale e politica.

Nell’ultima sala, attraverso le opere di Valerio D’Angelo e Davide Serpetti, si è snodata invece la tappa espositiva curata da Davide Mannocchi e intitolata Post Scriptum. Che cosa rappresenta un’annotazione alla fine di un testo? Il PS che aggiunge un ultimo residuo di pensiero a conclusione di una pagina a cui non si vuole mettere un punto, una postilla che si mostra come una nuova possibilità, il proseguo di una storia che non si è ancora conclusa.

Ci sarà qualcosa dopo tutto questo? Si chiede la mostra in senso più esistenzialista. “L’essere umano – scrive il curatore – è mosso dallo spasmodico desiderio di trovare un senso alla storia, quella di tutti e soprattutto quella del singolo”. Quel residuo condensato in un brevissimo PS può essere la salvezza, una strada percorribile che tuttavia necessita del suo testo per essere pienamente compresa.

Prendendo ad esempio le pitture di Davide Serpetti vediamo i richiami ad archetipi, forme figurative primordiali ricorrenti in secoli di civilizzazione, che si mescolano agilmente a rimandi culturali e simbolici della società contemporanea globale. Il desiderio di autosufficienza delle immagini emerge da uno sfondo compatto di pittura monocroma, una superficie piatta di colore saturo. Le figure cercano di svincolarsi dal conosciuto per andare verso rappresentazioni ignote, fuori da ogni intento descrittivo o narrativo.

Così pure i mondi lontanissimi di Valerio D’Angelo sono specchi che riflettono la tradizione per suggerire un futuro sognante, varchi che possono essere attraversati per atterrare in una dimensione che confonde le concezioni di tempo e di spazio precostituite.

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