Struggle: The Life and Lost Art of Szukalski. Come fare i conti con un’eredità

Il documentario, uscito su Netflix nel 2018, ripercorre la storia del controverso Stanisław Szukalski, scultore polacco americano del secolo scorso

«I knew somewhere, somebody would find these tapes, and they’d see what was on there and make something out of it». Così esordisce nel film Glenn Bray, la figura più vicina a Stanislaw Szukalski, a proposito delle cassette registrate negli ultimi anni di vita dell’artista. Il contenuto delle videoregistrazioni restituisce infatti l’immagine di un personaggio geniale quanto ambivalente e scandisce il corpo del testo filmico.

Prima di ripercorrere la vita dello scultore, il documentario si sofferma sulle vicende che hanno portato alla sua riscoperta: dopo essere stato proclamato il più grande artista vivente nella Polonia degli anni ’30, Szukalski finisce per vivere dimenticato a Los Angeles. L’autore della riscoperta è Glenn Bray, che acquista casualmente un volume in cui sono raffigurate le opere dell’artista, fin da subito apprezzate anche da personaggi come George Di Caprio, Suzanne e Robert Williams, tutti molto presenti nel film. Nel 1973 Bray ha l’occasione di rintracciarlo: dopo aver visto un manifesto del suo Copernico in una libreria, scopre che vive nei dintorni.

È a questo punto che il documentario inizia a fare uso del materiale originale registrato da Bray e delle testimonianze delle figure vicine a Szukalski. Da ciò si evince l’immagine di un artista titanico, con un gusto marcato per la fusione di forme tra loro estranee – ad esempio, i simboli delle culture precolombiane e le vecchie culture slave – e al tempo stesso forte sostenitore di un’arte non accademica. Insomma, un’arte nata da sé stessa con cui inserirsi nelle fila dei grandi.

Il documentario mette in evidenza il passaggio degli anni ’30, quando lo scultore si trova in Polonia alle prese con la prospettiva di fondare una nuova arte nazionalistica, priva di qualsiasi forma di dominazione esterna. Per illustrare questo periodo non viene fatto molto uso delle registrazioni, soprattutto perché Szukalski tende a tacere le proprie posizioni antisemite del tempo. La scoperta di questa fase di pensiero violento nella vita dell’artista – espresso nel Krak, un giornale di quel periodo – è uno snodo centrale del film, perché mette i narratori di fronte alla problematicità di elaborare un’eredità ingombrante e soprattutto sconosciuta: Di Caprio, uno dei produttori, afferma di aver saputo di questi fatti solo dopo l’inizio delle riprese. 

«What is Szukalski? Is Szukalski a few passages in a journal which nobody really read in the 1930s, or is Szukalski the whole life of Szukalski?». Sembra essere questa la domanda al centro del film, che sceglie quindi di elaborare questa eredità e di valorizzare il cambiamento dell’artista in seguito alla distruzione del suo atelier con il bombardamento di Varsavia. Dopo la guerra Szukalski si presenta come un artista mutato, in cui la forte concettualizzazione dell’opera d’arte è volta a trovare interconnessioni tra le civiltà. Ed è questa svolta che il documentario enfatizza, soprattutto perché è raccontato dai veri e propri coprotagonisti dell’ultima fase della vita di Szukalski, ovvero quelli che ne hanno vissuto il momento di maggiore – e a tratti assurda – apertura.