HyperLevini: le frecce rosse di Felice Levini trafiggono il suolo toscano per Hypermaremma

«Mi interessa la distanza dal cielo», parla l'artista, autore dell'intervento nel Parco Archeologico dell’Antica Città di Cosa

Quinta edizione di Hypermaremma. Un ritorno alle origini. Il Parco Archeologico dell’Antica Città di Cosa ha già ospitato nel 2019 la collettiva La Città Sommersa, nel 2022 la scultura di Francesco Cavaliere Otto Doppio Cono con Maschera. L’ormai conclamata manifestazione ideata e portata avanti dai galleristi Carlo Pratis, Giorgio Galotti e del collezionista e manager Matteo D’Aloja, torna in uno dei luoghi d’esordio. Per l’occasione la scelta non può che ricadere su un artista dalla manualità classica e dalla poetica ironica e pungente, Felice Levini; a lui l’arduo compito di dar seguito allo spirito di armonia e contrasto col territorio tipico di Hypermaremma.

Dodici frecce rosso vivo che fendono l’Arce dell’Antica Cosa. Dodici lapidi marmoree affiorano dal terreno portando i nomi bronzei delle divinità dell’Olimpo romano. Levini gioca col tempo riportandoci alla religiosità dei padri per poi richiamare immediatamente la nostra attenzione sulla rapidità del reale contingente. Come in una pioggia di segnali divini, l’artista costella il Parco di questi giganti vettori senza soluzione di continuità, creando, anzi, un passato al contemporaneo – le lapidi – e un futuro all’antichità – le frecce –. Come tutto questo sia possibile è, però, da demandare a chi, queste frecce, le ha artisticamente scoccate.

MB: Mi piacerebbe raccontare la genesi di questo lavoro a partire da un momento recente: la notte che ha preceduto l’installazione (12 giugno N.d.R.) abbiamo visto passare sopra le nostre teste i satelliti di Starlink, recente progetto spaziale dell’imprenditore statunitense Elon Musk: una lunga fila di satelliti che illuminano il cielo attraversando a grande velocità lo spazio e sprigionando un bagliore impossibile da ignorare non appena si alzano gli occhi. Sono anch’essi, come le tue frecce, dei vettori che puntano una direzione ben definita. Mi chiedo, allora, cosa, del tuo lavoro, unisce così fortemente i due poli, passato e futuro, analogico e digitale, religiosità pagana e satellite artificiale?

FL: Io penso che dovremmo superare il singolo momento del passaggio, quella è la fortuna di trovarsi al posto giusto nel momento giusto; ciò che veramente conta è che, quando abbiamo alzato la testa per vedere questo filotto di satelliti, abbiamo visto anche altre cose: una grande libellula, un treno di luce, un percorso illuminato nella notte, una freccia appunto. Tutto questo rende più magica l’apparizione, perché la carica di significato e la fa sembrare un segnale, rende a un fatto dell’uomo un aspetto divinatorio. Se immaginiamo quanto di positivo si potrebbe fare utilizzando questi oggetti in orbita dobbiamo anche tenere conto di quanto invece potrebbero essere distruttivi, l’uomo è fatto di un doppio, quindi, è impossibile fuggire alla malignità, ecco allora che questi oggetti diventano “di più”, si caricano di significato. Anche il giorno dopo, quando durante l’installazione con Carlo Pratis siamo stati sorpresi più volte dalla tempesta, tutto ha assunto un’atmosfera differente, proprio perché queste icone che portavamo con noi, queste grandi frecce, ci guidavano nel pensare in una certa direzione. Così avviene la connessione fra passato e presente, attraverso il significato che assumono le cose sotto una giusta luce. Le frecce occupano uno spazio che è prettamente mentale, vuoi anche soltanto perché il loro sviluppo è tutto verticale e non invadono il nostro mondo orizzontale.

MB: Che rapporto si instaura allora con questo cosmo, con questa casualità?

FL: A me interessa la distanza dal cielo. Il mio lavoro un po’ lo racconta, mi è sempre interessato mantenere una certa distanza dalle cose; già nei miei lavori dei primi anni Ottanta segnalavo questa posizione dichiarando i miei lavori Azioni a distanza. Che non è nient’altro che vedere le cose da una posizione che ti permette di cogliere i caratteri generali. 

MB: Questa parte del tuo lavoro mi fa riflettere sull’ibridazione che c’è anche in Dal Giorno alla Notte fra la scala architettonica, l’installazione, l’atto performativo – sia come performance simulata del cielo, sia la ritualità intesa come atto performativo dell’uomo –, la pittura ecc.  Allora cos’è realmente questa installazione?

FL: Io ragiono da pittore, non da scultore o da artista performativo. Io qualsiasi fatto artistico lo intendo innanzitutto bidimensionale: dai miei autoritratti, alla donna sospesa (Farmacia, performance/installazione presso la Galleria L’Attico di Roma, all’interno della rassegna d’arte Martiri e Santi, 12 febbraio 1996 N.d.R.), fino alle frecce. Perché solo attraverso la bidimensionalità si può ricostruire il concetto di illusione che è tipico della pittura nella sua essenza, l’impossibilità di dare una verità alle cose che invece è tipica della scultura. In tutti questi anni ho sempre cercato di riportare tutti i miei stimoli esterni alla pittura, quindi, anche le frecce io le vedo così. Non ho velleità di portare l’arte su piani distinti, come l’antropologia o la sociologia, anzi, forse questo lavoro nello specifico è del tutto anti-sociologico e, se vogliamo, anche inattuale nell’immaginario che evoco. Le frecce parlano direttamente del rapporto dell’uomo con la natura, di una spiritualità che viene dagli elementi ai quali viene assegnata una valenza divinatoria; l’Arte Povera ne ha parlato a lungo di questo rapporto con gli elementi, Kounellis è stato uno degli interpreti più bravi nel fare questo. Ecco perché la mia è una pittura mentale: utilizzo il rosso perché è con il rosso che si fanno i segnali, a maggior ragione se deve contrastare con il blu del mare e del cielo o con il verde della vegetazione, utilizzo il marmo, il carattere romano, utilizzo la materia per farla parlare come un pittore fa parlare il pennello.

MB: Recuperando la storia del luogo, area cultuale degli Etruschi prima e dei Romani poi, viene fuori con chiarezza il grande numero di significati assunti nei secoli; immaginiamo solo che dove i romani trovarono una fenditura nella roccia con resti di cenere e vegetali carbonizzati hanno poi eretto il Capitolium, tempio per antonomasia della religiosità pagana. A distanza di così tanti anni cosa segnalano queste frecce, oggi che occupano un luogo così scaro in passato? 

FL: Potrebbero segnalare un’armonizzazione con il mondo naturale. Dico “potrebbero” perché, quando lavoro, non mi pongo in modo univoco rispetto a quello che debbo significare. Però l’armonia con la Natura c’è, non in senso ecologista. Diceva Manlio Sgalambro che «chi vuol salvare la natura la perderà» (Nel pensare breve, Adelphi, Milano 1991). Dobbiamo porre l’accento sull’equilibrio, non sul ritenerci migliori o capaci di cambiarla, perché la Natura non sempre è benevola, anzi, talvolta è uno “squalo”. L’Arte, anche quando diventa un elemento disumanizzante, ritrova sempre una centralità fra le varie centralità del mondo, senza prevaricare. Questo mi piacerebbe che emergesse da questo lavoro, perché riporta in un certo senso al concetto un po’ in crisi al giorno d’oggi, quello di “bello”.

MB: Questa visione dell’arte ci porta al tuo lavoro. Per quanto mi riguarda ho sempre scorto nelle tue opere una sorta di triangolo di riferimenti. Un polo sembra, appunto, occupato dalla bellezza intesa come canone estetico, un altro spazio è lasciato all’icona come soggetto riconoscibile, infine c’è una componente che reagisce al presente. Se dovessi definire un tuo lavoro ideale direi che sarebbe una reazione al reale, bella, drammaticamente presentata, non narrativa.

FL: In fondo è un po’ così: bisogna giocare su più posizioni. Io spesso, mentre, ti racconto una cosa te ne sto dicendo anche altre, oltre a lasciare spazio alla lettura personale. Di contro, però, ho bisogno che l’opera sia compresa quando ti sta apertamente dicendo qualcosa. Pur non dovendo insegnare niente a nessuno, credo che riuscire a emozionare voglia dire fare qualcosa che scatena una reazione. Per questo motivo mai ho preteso di fare un’arte scandalistica, per creare delle connessioni che non si esauriscano nel fatto in sé, a certi livelli l’arte non ha mai viaggiato sull’attualità, spesso è stata inattuale se non atemporale, capace di sospendere il giudizio. Il mio lavoro lo definirei “politico” nel senso generale del termine. Prendi le scacchiere (Corpi Semplici II): lì ci sono le guerre personali, quelle della vita, le conflittualità che l’arte ha espresso nella storia, però poi c’è rappresentata la guerra vera, reale, quella che devi riconoscere perché è lì fuori a un palmo dal tuo naso.

MB: Qual è stato allora il più grande stimolo a lavorare finora?

FL: Non ce n’è uno in particolare. Sicuramente ho preferito una fissità nell’approccio creativo piuttosto che una fissità estetica. La pittura, per me, è processo iconografico dove la tecnica ha sempre un pretesto, ma se emerge all’occhio avviene il fallimento. Sicuramente un bravo artista, così come un grande ballerino o un grande calciatore non ti fa capire come fa tecnicamente a emozionarti. Questo è il punto, se io quando finisco un lavoro riesco a scorgere la fatica, vuol dire che quel lavoro va buttato, senza avere paura, perché essere artista è un po’ come essere un gambero, fai un passetto avanti e poi tre indietro. L’Arte ti tira schiaffoni. 

MB: Cosa avviene allora quando alla sfida dell’Arte si aggiunge anche quella con il territorio? Hypermaremma da cinque anni lavora per creare un’esperienza artistica solida e contemporanea capace di trasmettersi nel tempo, e lo fa generando luoghi nei luoghi, revitalizzando il paesaggio maremmano, cercando di armonizzarsi con il tessuto preesistente per attualizzarlo mantenendone la storicità. 

FL: Io ho l’impressione che quella di Hypermaremma sia un’idea bella e coraggiosa, già solo nel dare l’opportunità agli artisti di esprimersi liberamente, che è un fatto non trascurabile. Poi con il passare del tempo si impara sempre di più a leggere le situazioni, il territorio, gli artisti stessi. Questa capacità, tipica della manifestazione, fa sì che il territorio non venga occupato ma coinvolto nel confronto con ciò che siamo oggi rispetto al passato, con la contemporaneità. Il rischio di perdere le fila è sempre dietro l’angolo, ma quando le cose si fanno in questo modo, coerentemente, con un senso, con visione, allora si può dar vita a esperienze durature e incisive, i cinque anni di lavoro lo dimostrano. Al Parco Archeologico credo siano rimasti entusiasti perché sanno che occasioni come queste fanno bene a tutte le parti in campo, soprattutto al dialogo storico. Ciò che conta è come si fanno le cose, ancor prima di dove.

MB: Se fossi una di quelle dodici divinità, chi saresti?

FL: Mercurio, perché porta il messaggio.