Beatrice Pediconi: segni, racconti e altre storie. Dalla perdita alla vita nova

Lo sguardo della curatrice sulla mostra Presenza dal catalogo presentato alla Galleria Nazionale di Roma il 16 giugno

“Ma questi di notte si parlano, chiacchierano!”. “Vero! E chissà che si dicono. Loro, che stanno qui da tanto tempo, con le loro storie, i ricordi, le antiche glorie decadute. E questi altri, i tuoi, nuovi e così evanescenti”. “Sì, ma anche i miei spiritelli hanno le loro storie da raccontare”.

Guardando con affetto e attenzione i tanti volti e i corpi che popolano la sala della Gipsoteca della Galleria Nazionale io e Beatrice Pediconi abbiamo fantasticato su che cosa poteva avvenire, in quella sala, una volta spente le luci. Quei volti e quei corpi in gesso e terracotta avrebbero cominciato a muoversi e a fare amicizia con i sottili segni di Beatrice, anche loro, a loro modo, vivi. Un po’ come accade nelle fiabe dei bambini, tanto che, per un po’ di tempo, siamo state incerte se chiamare la mostra “Spiritelli”.

“Presenze”, invece, è il titolo che alla fine ci ha messo d’accordo. Non solo noi, io e Beatrice, ma che ha fatto convergere sullo stesso orizzonte nominale, e di senso aggiungerei, quegli strani, insoliti, apparentemente cosi diversi, frammenti di realtà che si guardano, gli uni di fronte agli altri, nella Gipsoteca della Galleria Nazionale di Roma. Da un lato quelle curiose reminiscenze di una scultura che ha visto i suoi momenti di gloria nel secolo scorso e che oggi, grazie a quella originalissima prospettiva visiva in cui li ha collocati Cristiana Collu, riemergono dall’inevitabile oblio deciso dalla storia dell’arte e, dall’altro, le reminiscenze di un passato del tutto personale di Beatrice Pediconi che oggi rivivono grazie alla sperimentazione che  l’attitudine contemporanea spinge l’artista a praticare.

Da molti anni Beatrice Pediconi lavora con la polaroid, strumento amato e indagato da molti altri artisti prima di lei. Con la differenza che per Beatrice la polaroid era lo strumento finale, il clic con il quale immortalava un processo creativo (non trovo aggettivo più pertinente, sebbene questo mi convinca fino ad un certo punto), che aveva per protagonista una strana pittura fatta di acqua e, poi, ovviamente, di colore. L’acqua, elemento vitale per eccellenza, nobilissimo e imprendibile. Capriccioso, per usare un eufemismo, e potenzialmente molto pericoloso, perché ingovernabile.

La prima volta che ho visto le polaroid di Beatrice, e soprattutto la prima volta che lei mi ha spiegato il suo procedimento, è stato molti anni fa. All’epoca usava una bacinella colma d’acqua dove versava dei colori – poi delle chine e poi degli elementi organici, come l’uovo – che muoveva con un pennello, immortalando un certo momento, o una sequenza di momenti, con il famoso clic della polaroid. “Dipingere con l’acqua”, come chiamava lei la sua pratica, in parte autoriale e in parte lasciata al caso, all’ingovernabilità dell’acqua. Il tutto – colori che si aggrumavano in isole, strane metamorfosi cromatiche, immagini fluttuanti che evocavano un che di informale – nel perimetro circoscritto della polaroid.

La sua vita newyorkese – Beatrice Pediconi si è trasferita nella Grande Mela 14 anni fa – le ha permesso di scoprire la grande polaroid di formato 20 x 24 centimetri, conservata oggi ad Hartford, nel Connecticut. Così Beatrice ha sperimentato il grande formato, lavorando con lo stesso procedimento iniziale, ma con risultati sorprendentemente grafici e pittorici. E poi è andata oltre.

Nel 2018, ha cominciato ad utilizzare l’emulsione della polaroid, l’anima stessa dell’immagine, sperimentandone il suo potenziale trasformativo. «Perché non utilizzare il materiale di quello che si è impresso come mezzo per arrivare ad una nuova tecnica? Qualcosa come distruggere per ricostruire», si è detta l’artista. E i risultati si sono rivelati ancora più sorprendenti. Campiture di colore – un colore tecnologico, freddo ma attraente – lacerate e aggredite da inserti anomali, non facilmente decifrabili. Grandi e distopiche composizioni astratte.   

E, poi, è andata ancora oltre.

Ha cominciato a ritagliare scarti di lavori precedenti in strisce sottilissime, decidendo di realizzare proprio con queste delle nuove composizioni. Gli avanzi funzionano come una tavolozza. C’è l’azzurro da usare o il giallo, il grigio o il beige, una palette ricavata da quello che era destinato al macero. Una palette che nasce dal passato, tra scarti e scelta consapevole di dargli nuova vita.

Non è un’idea originata dall’esigenza di rintracciare anche nell’arte la possibilità di un’economia circolare. C’è dell’altro. Un altro molto intimo, doloroso.

L’idea di questa nuova sperimentazione nasce dalla perdita del padre. Come a volte accade, la morte è capace di cambiare di segno una relazione. Se non ci si è mai capiti, o se ci si è capiti poco e ci si è molto equivocati, quel momento esiziale a volte riesce a cancellare il rancore, che improvvisamente appare superfluo, riesce ad andare oltre il dolore stesso e a cambiare la tonalità emotiva della relazione. Ne annulla gli insulti che la memoria aveva caparbiamente trattenuto, la emenda dal non detto, la lava dai silenzi, dalle parole e dai gesti che sono mancati. La morte, il lutto possono essere momenti di grande restituzione. Momenti di vita nova

Non solo perché, come dice Heidegger il nostro esserci è un essere-per-la-morte, affermazione che fa della morte il momento più autentico della vita, ma perché la perdita di una persona – volgendo quindi all’altro da sé la proposizione heideggeriana (passaggio non secondario) – oltre al vuoto che inevitabilmente genera, apre un’altra possibilità.

Il sentimento del vuoto, quella leggera vertigine che si avverte davanti alla serie Nude esposta alla Galleria Nazionale, sono protagonisti di questi lavori. Ma è un vuoto che, nella rapinosa attrazione che esercita, riesce ad evocare un pieno. Palpita di senso. Perché è un vuoto capace di costruire il senso. Dalla perdita, dal dolore quindi, alla vita.

Attraverso i suoi ritagli – oggetti di scarto, come scartata è una vita che non c’è più – che, messi in acqua insieme alla carta, acquistano una consistenza quasi setosa, fragile e leggerissima, che poi l’artista prova a distendere sulla carta, lasciando che quei resti facciano, in parte, il loro percorso e imprimano sulla carta la loro traccia, la memoria che trattengono, attraverso questo procedimento complesso e radicalmente sperimentale, penso che Beatrice Pediconi sia riuscita a cambiare il segno della perdita, del lutto. Anche per questo i suoi Nude risultano così inspiegabilmente forti, a dispetto della loro evidente fragilità.

E si guardano, parlano con quelle figure, spesso inutilmente auliche, ma che custodiscono, anche loro, la propria inalienabile storia. 

Nella bella Sala della Gipsoteca è possibile intuire questo dialogo e quella trasformazione dal vuoto della perdita alle possibilità di un’altra vita.  

Ma questo è solo uno dei miracoli dell’arte.     

Beatrice Pediconi Presenze
a cura di Adriana Polveroni
Presentazione del catalogo [Manfredi Edizioni]
con Adriana Polveroni, Gregorio Botta, Beatrice Pediconi
venerdì 16 giugno, Sala delle Colonne | h. 17.30
Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea
Viale delle Belle Arti, 131

Articoli correlati