Zanele Muholi, attivista visiva e splendida artista

Il suo lavoro fotografico denuncia la marginalizzazione e i soprusi che la comunità Black LGBTQIA+ sudafricana continua a subire

La prima volta che il grande pubblico l’ha vista è stato alla Biennale di Venezia del 2019, diretta dal curatore inglese Ralph Rugoff. Un suo enorme, maestoso e severo autoritratto era strategicamente piazzato in alto. Molto visibile. E lei, Zanele Muholi, ci scrutava, ci scavava dentro con il suo sguardo che non faceva sconti a nessuno. Tanto meno ai bianchi, i tanti noi bianchi, che affollavano l’Arsenale dove lei, autorevole regina nera, dominava incontrastata. 
Nel frattempo la blackness faceva il suo corso, portandosi dietro molti consensi e qualche polemica, il politicamente corretto ci metteva la sua mano pesante e Zanele Muholi ha rischiato di passare più per un fenomeno mediatico, spinto dalla sua pelle nera e dall’outing della omosessualità. 

E invece no, Zanele Muholi è una grandissima fotografa, capace di una ricerca acuta e di virtuosismi tecnici che, questi veramente, non fanno sconti a nessuno. Gode in questo momento di una grande popolarità. Dopo essere stata di scena allo Stedelijk Museum di Amsterdam (2017), al Museo de Arte Moderno di Buenos Aires (2018) al Gropius Bau di Berlino (2021), ora è la volta di Parigi, con una bellissima e vasta mostra presso la Maison Européenne de la Photographie (fino al 21 maggio), e del Mudec di Milano (fino al 30 luglio), segno evidente del suo meritato successo. Ma – avviso per i collezionisti – per acquisirla non è necessario andare a in Sudafrica, Paese dove è nata e dove tuttora vive, perché la stanno proponendo anche diverse gallerie italiane. 

Zanele Muholi si definisce una “attivista visiva”, il suo lavoro è profondamente impregnato dalla denuncia della marginalizzazione e dei soprusi che la comunità Black LGBTQIA+ del suo Paese continua a subire, arrivando a pagare addirittura con la morte una sessualità che non risponde ai canoni tradizionali. Nonostante la fine dell’Apartheid il Sudafrica continua ad essere un Paese molto violento e sessuofobico. Lei racconta tutto questo in diversi progetti fotografici, uno dei quali – iniziato anni fa e tuttora in progress – dedicato proprio alla comunità LGBTQIA+. Donne, uomini e trans, quasi tutti suoi amici, marginalizzati anche nelle azioni quotidiane più innocenti, non potendo per esempio accedere neanche alle spiagge del proprio Paese. In un’altra serie ritrae la sorprendente fierezza, l’estetica originale di molti transgender che partecipano a concorsi di bellezza femminile. Ma sono i suoi autoritratti, la serie Somnyama Ngonyama a imporsi all’attenzione.

Come sa qualunque fotografo o chi semplicemente si diletti di fotografia, ritrarre un volto scuro in bianco e nero è impresa non facile. Gli autoritratti, tutti in bianco e nero, di Zanele Muholi sono invece splendidi, tecnicamente perfetti. E lei usa questa competenza, acquisita attraverso la frequentazione del Market Photo Workshop di Johannesburg e della Ryerson University di Toronto e da tanto lavoro sul campo, per raccogliere i propri autoritratti, quasi tutti in primo piano, che diventano altrettante narrazioni della segregazione della donna nera (in particolare), degli stereotipi, espressi attraverso ammennicoli vari: pettini, spugne, stracci che avvolgono le folte chiome nere, che accompagnano l’immagine della donna ricalcata a uso e consumo del padrone bianco. Fino a entrare nell’intimo del racconto, con ritratti della madre Bester, per anni a servizio presso una famiglia bianca, e poi con scatti dei suoi amori, mostrandosi, infine, in un’intensissima immagine in cui Zanele Muholi, bellissima in una posa da pin up, di nuovo, ci scruta, ci scava dentro, creando un potente corto circuito visivo. Come si conviene a una “attivista visiva”.