La galleria Lorcan O’Neill ha inaugurato nei giorni scorsi il nuovo progetto di mostra dell’artista romano Pietro Ruffo, Il Giardino Planetario, che presenta alcune opere della serie Antropocene, a cui l’artista si dedica ormai da un anno e mezzo. Ma cosa significa Antropocene? La risposta è molto complessa poiché con questo termine ci riferiamo a un’era geologica legata all’uomo ancora non esattamente definita, ma oggetto di numerosi studi e dibattiti scientifici da ormai 15 anni.
«Affronto un tema ancora in discussione: è questo il suo fascino», dichiara l’artista. Sappiamo ormai a livello mondiale che l’uomo ha un grande impatto sul clima e sul paesaggio naturale, «ma quest’impatto è così forte da essere l’elemento per definire un’era geologica? Se sì, da quando? Dall’origine dell’Homo Sapiens, da quando siamo diventati agricoltori, dalla diffusione del capitalismo o, ancora, dagli anni ’40 e ’50 con l’invenzione delle prime bombe che hanno cambiato la chimica dell’aria?».
I lavori in mostra riflettono su questa tematica, offrendo alla storia dell’uomo della natura e del mondo uno spazio di convivenza. Le opere sono realizzate con una tecnica che è ormai la cifra stilistica di Ruffo, in particolare, si presentano come una sovrapposizione di disegni su carta, colori, mappe e intagli: «Questi lavori sono dei lavori classici sul paesaggio a cui però ho voluto aggiungere anche un elemento legato al tempo». Tempo e spazio sono due elementi di grande rilevanza in queste opere: il primo registra cambiamenti dell’ambiente causati dall’uomo, il secondo ne è l’evidenza, ogni luogo, infatti, si presenta come la stratificazione di storie, culture e cambiamenti.
«Di personale in questa serie c’è il punto di partenza, ovvero la grotta del genovese, detta anche grotta dei conigli. È stata proprio la visita di questa grotta la scintilla da cui sono nati questi lavori». L’artista racconta come in questa occasione abbia potuto riflettere sul succedersi di diverse popolazioni con diverse culture e diverse abitudini, nate e sviluppatesi come conseguenza di un cambiamento climatico e ambientale: «Nella grotta erano visibili due diversi cicli pittorici, uno più antico che rappresentava scene di caccia con un’iconografia simile a quella che conosciamo delle pitture rupestri, l’altro più recente molto più grezzo rappresentava forme timbriche di animali». Il perché di quest’apparente regressione artistica è legato allo sciogliersi dei ghiacci che ha isolato la grotta e, conseguentemente, la popolazione che la abitava. Le immagini sovrapposte alle mappe vogliono ricondurre la ricerca a dei luoghi specifici e sono di diverso genere: alcune rappresentano teschi e fossili, altre rappresentano semi o piante ormai estinte, altre ancora rappresentano edifici costruiti dall’uomo. «Con queste opere – spiega Ruffo – voglio porre l’accento sul cambiamento climatico e su come l’intero ecosistema si sia modificato negli anni, il lavoro, però, non vuole essere un depotenziamento del ruolo dell’uomo». Al contrario, l’artista vuole indagare proprio il rapporto tra l’uomo e il pianeta terra, a questo proposito ha dichiarato: «l’unica cosa che stiamo distruggendo è la nostra possibilità di vivere in questo pianeta e non il pianeta stesso. Siamo una specie che è stata in grado di realizzare anche cose meravigliose, impattando, però, solamente la pelle di un pianeta che ha una superficie immensa». In altre parole, il nostro impatto sul globo terrestre è il minimo rispetto alla vita del pianeta stesso, «il termine Antropocene non è altro che l’ulteriore visione antropocentrica applicata a un’era geologica».
La formazione da architetto dell’artista lo ha portato a realizzare opere in cui la creazione di cemento, «termine che nella sua etimologia rimanda al crescere insieme», non rappresenta solamente un’alterazione della natura che abbiamo occupato, ma anche la volontà umana di riunirsi e avvicinarsi. «Le prime architetture non erano legate a una necessità – dichiara – non rispondevano a un bisogno primario, al contrario sono state architetture religiose, spirituali, mezzi per pensare all’astratto. Gli edifici che decido di rappresentare celebrano la nostra capacità di stare insieme che ci permette di parlare di cose non tangibili».
A questo punto ci è subito chiaro il titolo dell’esposizione che fa riferimento al tentativo dell’uomo di addomesticare la natura, apparentemente inospitale, rendendola adatta alla sua presenza: «Il titolo, così come parola la giardino, ha una doppia accezione: una di vita, bellezza e umanità che si riunisce e costruisce, l’altra legata all’uomo e al suo imporsi sulla natura addomesticando ogni centimetro della terra, al punto da mettere a rischio la sua possibilità di abitarla». Non un giudizio sulla storia, dunque, bensì «relativizzare il nostro rapporto con il pianeta, ovvero comprenderne l’urgenza relativa alla salvezza della nostra specie e non del globo che abitiamo».