Natura, non paesaggio. Da Francesca Antonini Il continente buio di Alice Faloretti

Finalista al Premio Cairo, la giovane artista bresciana torna ancora a Roma, con un nuovo ciclo di lavori ispirato al tema della grotta

A poco più di tre anni dalla prima personale romana (Suspension of disbelief, a cura di Daniele Capra), Alice Faloretti torna ad esporre un nuovo corpus di lavori (olii e disegni a matita) alla galleria di Francesca Antonini.

Alice Faloretti, Il continente buio, 2023, exhibition view at Francesca Antonini, Rome. Photo Daniele Moraioli

Inaugurata il 25 gennaio e aperta fino al prossimo 25 marzo 2023, Il continente buiocurata da Edoardo Monti, è intitolata sulla scia del saggio omonimo in cui Francesco Sauro (2021) ha raccontato la sua esperienza da speleologo. Il progetto della giovane artista bresciana prende avvio da Demorari, tela presentata in occasione dell’ultima edizione del Premio Cairo e giocata attorno al tema dell’ambiguità: «Se il verbo “dimorare” rimanda all’idea di abitare un luogo in maniera stabile – ha scritto Giulia Oglialoro nel testo del Premio – la sua etimologia latina “demorari” insinua una sfumatura di incertezza, perché letteralmente significa trattenersi, indugiare». Allo stesso modo, anche le pitture più recenti fanno registrare una medesima, e conturbante, temperatura psichica: questi luoghi, «che la natura offre come rifugi naturali – scrive Edoardo Monti – assumono un ruolo opposto, contenitore di paure e pericoli». Stabilizzando i suoi paesaggi nel divenire continuo di forme fluide e cromature dalla saturazione innaturale, difficili a tradursi in parola, Faloretti mette alla prova l’occhio, in cui si annida la pulce del tranello, e la mente, che spara a salve, mandando a vuoto tentativi su tentativi nella speranza di riuscire  a organizzare l’informe della materia in un discorso d’insieme, in un paesaggio inteso – come ha scritto Georg Simmel nella sua Filosofia del paesaggio (1913) – come «totalità che superi gli elementi, senza essere legata ai loro significati particolari ed essere meccanicamente composta da essi». 

Alice Faloretti, Il continente buio, 2023, exhibition view at Francesca Antonini, Rome. Photo Daniele Moraioli

Nella progettazione delle sue grotte, l’artista non lascia spazio alcuno all’individuazione di unità discrete, di elementi chiusi e riconoscibili nella linea del disegno; la sua è piuttosto una logica della simultaneità, della compresenza, che concede lo stesso spazio tanto alla ragione creatrice quanto al momento disgregante, offrendo al suo pubblico un concentrato in formato (più o meno) ridotto dell’azione, incessante, della natura naturans. Una forza primigenia, in moto perpetuo, che, colto nella scala del tempo geologico – ordine inaccessibile alla percezione umana – non permette alcuna cristallizzazione di forme, sottoponendo l’esistente a una rilavorazione costante, e trasformandolo di volta in volta in nuove ipotesi. «La natura – ancora Simmel – è l’infinita connessione delle cose, l’ininterrotta nascita e distruzione delle forme, l’unità fluttuante dell’accadere, che si esprime nella continuità dell’esistenza temporale e spaziale». 

Alice Faloretti, Il continente buio, 2023, exhibition view at Francesca Antonini, Rome. Photo Daniele Moraioli

È quindi da un’idea di natura, più che di paesaggio, che ha senso partire per analizzare i lavori di Alice Faloretti, nell’espressione di un collasso spazio-temporale, delle sovrapposizioni tra piani e delle reciproche “invasioni” di campo. Il flusso continuo, di fatto, oltre a disfare l’insieme dei dati reali, azzera la distanza che individua il paesaggio in quanto tale. A due anni di distanza dal saggio di Simmel, Heinrich Wölfflin pubblica i Concetti fondamentali della storia dell’arte (1915): leggendo lo sviluppo dello stile secondo un modello dialettico fondato su cinque coppie di concetti opposti. Nella coppia superficie/profondità, se il primo termine «riduce il quadro a una successione di strati paralleli», il secondo – valido, ad esempio, nel Barocco – accentua «i rapporti spaziali in ogni direzione», obbligando lo sguardo a «impostare la visione nel senso della profondità». 
Un simile principio, con Faloretti, è spinto sino ai limiti del paradosso: le sue grotte, lungi dal proporre una profondità a senso unico, attirano, e allo stesso tempo, respingono lo spettatore, che lamenta la difficoltà di orientamento all’interno di una singolarità così contraddittoria, del resto figlia di un’altra grande singolarità, quella della rivoluzione digitale. Il superamento dell’immersività di stampo barocco è ottenuto, nella pratica, per mezzo del colore: è con il colore che esonda, infatti, che Faloretti distrugge l’entità singola e lo spazio razionale; con il accenna tronchi o fronde, deboli ruscelli o incompiute concrezioni stalagmitiche; è con il colore che priva l’uomo di ogni coordinata intellettuale, lasciandolo da solo, alla deriva, in compagnia del buio, dove l’esercizio della conoscenza come riconoscimento e coordinamento del dato reale lascia spazio al “passo-dopo-passo”, al sentiero battuto a tentoni, chiedendo aiuto alla mano, al naso, a tutti i sensi “non teorici”.
È nel colore, dunque, che giace la fortuna dell’artista, un talento raro, capace di restituire, nell’atto visivo e necessariamente distaccato, i tentennamenti concreti, i balbettii effettivi e i passi falsi della ragione davanti all’ignoto. 

Alice Faloretti, Il continente buio, 2023, exhibition view at Francesca Antonini, Rome. Photo Daniele Moraioli

Alice Faloretti, Il continente buio
a cura di Edoardo Monti
fino al 25 marzo
Francesca Antonini Arte Contemporanea – via Capo Le Case, 4 Roma

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