La forma delle parole nel racconto latente di Stefano Maria Zatti per Atipografia

Un'antica tipografia di fine Ottocento diventa nuovo luogo di incontro per la comunità e ospita le opere dell'artista Stefano Mario Zatti

​Ad Arzignano, in provincia di Vicenza, nasce, negli spazi industriali di un’antica tipografia di fine Ottocento, un nuovo luogo di incontro per la comunità. Atipografia viene fuori dopo un lungo e profondo restauro a opera dello studio di architettura AMAA, che permette alla neonata galleria di accogliere il pubblico con un volto rinnovato: al piano terra si trova lo spazio espositivo principale, mentre al primo piano, negli ambienti di quello che una volta era il magazzino delle carte, si trovano gli uffici, introdotti da un tetto-giardino. Quasi mille metri quadrati su due piani racchiusi tra un cortile esterno e uno interno, che sono un invito alla partecipazione, al contatto umano, alla contemplazione.
Oggi, fino al 4 marzo, Atipografia ospita nei suoi suggestivi spazi la mostra La forma delle parole, personale dell’artista padovano Stefano Mario Zatti, a cura di Robert Phillips e Matilde Nuzzo.

Stefano Maria Zatti, La forma delle parole, exhibition view at Atipografia, 2023

Il percorso espositivo vede al piano terra della galleria dodici grandi opere, per poi proseguire al piano superiore con lavori appartenenti alla fase del percorso artistico di Zatti legato alla transizione tra il concettuale e la sua particolare rappresentazione del verbo come mezzo espressivo.
La parola come atto di creazione si pone alla base della ricerca da cui nasce l’esposizione. Essa spazia tra la rappresentazione puramente simbolica di sangue del mio sangue, o delle sindoni, dove la parola non è elemento mostrato, ma sotteso, come se i sentimenti si tramutassero in grafie e le grafie in sentimenti, fino a opere come 99 nomi o mundus dove proprio l’elemento grafico mostra la parola come atto finale, e fondante, della rappresentazione. Le parole diventano ombre che occupano ritagli all’interno di uno spazio assoluto, collocati in contesti volutamente silenti e, a tratti, inquieti e oscuri. Non ritratti o fisionomie isolate nel grigiore di una tela, ma parole o gesti artistici a cui guardare con la consapevolezza delle azioni evocate, piccole tessere che divengono emblemi di un oggetto relazionale, in un processo che non è più soltanto dramma personale, ma viene generalizzato, filtrato dalla distanza fisica ed emotiva dove il paesaggio della rappresentazione viene circoscritto e, apparentemente, soffocato dentro il perimetro delle opere.

Stefano Maria Zatti, La forma delle parole, exhibition view at Atipografia, 2023

Analizzando il lavoro di Zatti nelle sue diverse declinazioni, si nota come al fondo di ogni opera esiste un narrato, una sorta di bolla latente, che esprime con la scrittura ogni aspetto delle sue opere. Questa forma di enciclopedia personale, di abaco dell’inconscio, contenuta nei suoi libretti fittamente scritti al limite dell’indecifrabile, rappresenta uno strumento di rappresentazione del verosimile, una sorta di illusione consapevole legata indissolubilmente alle suggestioni quotidiane che guidano il lavoro dell’artista. Le opere in mostra, nel loro insieme, rappresentano uno dei capi della metafisica dell’assenza dove, il venir meno di punti di riferimento nella realtà, crea un distacco estremo, aiutato dal quasi totale rifiuto del colore, ma dove l’estrema sintesi del fare di Zatti, liberato com’è da ogni sovrastruttura, trova la sua massima chiarezza rappresentativa.

Stefano Maria Zatti, La forma delle parole, exhibition view at Atipografia, 2023


Zatti approfondisce ogni componente della propria interiorità, restituendone una forma visibile e superando la banalità della sola rappresentazione fattuale della percezione quotidiana per spingersi oltre le barriere del concettuale e facendosi interprete cosciente di quegli schemi reconditi che stanno alla base di ogni rappresentazione artistica.
Le opere in mostra sono accompagnate da uno scritto – redatto in forma di colloquio a più voci tra l’artista, Elena Dal Molin e i curatori della mostra – che racconta, in forma poetica ma anche critica, le complesse interazioni che portano alla genesi delle opere dell’artista, mostrando frammenti di memorie che riaffiorano, luoghi dimenticati, ricordi lontani che sono restituiti al lettore come metafore di un percorso difficilmente raccontabile con altri mezzi.