L’opera come promessa. L’urgenza del racconto di William Xerra

La mostra documenta una parte della diramata ricerca che l’artista fiorentino ha condotto negli ultimi cinquant’anni

È un piccolo scrigno la Galleria Il Triangolo di Cremona. Protetta dall’alto Torrazzo e di dirimpetto al Teatro Filo, con equilibrio e garbo propone alla città sorniona sempre qualcosa su cui riflettere; un raggio di luce nella nebbia. La mostra L’opera come promessa, a cura di Sara Fontana, documenta una parte della diramata ricerca che l’artista fiorentino William Xerra (Firenze, 1937) ha condotto negli ultimi cinquant’anni. 
Artista poliedrico, Xerra lungo la sua carriera ha esplorato le infinite possibilità dell’arte e la sua contaminazione attingendo materia fertile da varie discipline: dall’esordio come pittore, nel solco di Morandi e Sironi, si avvicina alle ricerche informali, new dada e concettuali per stabilire poi relazioni decisive con la Poesia Visiva. L’opera come promessa riassume, senza nessuna pretesa di incasellamento, quelle che sono «le antiche ossessioni dell’artista: il dominio senza confini del bianco, la presenza di un segno minimalista, il peso dei margini e il valore oggettivo e assoluto di quel “niente che poi niente non è”, così come l’urgenza del racconto e del mostrare come vuoto, infinito, assenza siano anche pieno, perimetro e presenza».

William Xerra, Amori, 1975

La si avverte piano piano, questa dimensione del pensiero, proprio grazie alle opere, che costringono l’occhio dell’osservatore a indagarne ogni loro parte per cercare quei segni nascosti o incisi nel colore,  in grado di capovolgere lo spazio e le proporzioni dell’intorno. Il piccolo si fa grande e viceversa, il segno in primo piano ridefinisce l’opera. Così, la cornice superiore di Stazione XIV (2001) racconta attraverso collage di appunti e mémoire un mondo altro che sorge dal blu notte che pervade la tela. 
Le sovrapposizioni di stampe che si trovano in 2021-2022 o Io mento (2006), ad esempio, evidenziano in modo spudorato la centralità della parola: la presenza dei “crocini” di taglio attiva da una parte il dialogo tra stampa e pittura, richiamando a quella contaminazione tra media e codici comunicativi citata inizialmente, dall’altra il legame con la poesia.

William Xerra, Mento (n.19), 2000

Parola, come si diceva, centrale, nel lavoro di Xerra e capeggiata da alcuni termini cardine: “vive” e “mento”. Il primo è, nel gergo tipografico, la parola cancellata che deve essere riabilitata, “lo strumento magico che può riattivare il frammento di un dipinto del Seicento come fotografie, lettere o documenti amministrativi dimenticati, spesso comunque indecifrabili; il secondo, “mento”, è la menzogna, dichiarata in modo ironico, dell’arte e dell’artista. L’artista, nella sua dichiarazione di millantatore, demanda all’opera, con un “vive”, quasi entusiasticamente urlato, il compito di raccogliere, custodire e risignificare la memoria. Anche di ribaltarla. Introdotto negli anni Settanta, il telaio interinale (ovvero il telaio provvisorio usato dai restauratori) diventa un elemento ricorrente nelle opere degli anni Novanta, creando una cornice fittizia. La presenza dei chiodi, inoltre, richiama al retro delle tele, al di là non solo dello spazio pittorico, ma anche di quello quotidiano, fatto di gesti, materia, lavoro.
Il tutto inserito in una “composizione rigorosa, scaturita da una tradizione geometrica che dalla sezione aurea giunge fino al costruttivismo russo” e in cromatismi che non lasciano spazio alle mezze misure: nei lavori di Xerra la notte profonda (Mento, 2000) convive con l’alba più dolce e rosea (Celle qui pense constantement a vous, 1993), per poi perdersi nell’iridescenza di fogli sottili di alluminio che recitano – a sé stessa, a noi, a voi – Bene, Sta bene, Mento, Vive. Infinito. (serie Aluminum plate, 2017).

William Xerra, L’opera come promessa
a cura di Sara Fontana
fino al 25 febbraio
Galleria Il Triangolo – Cremona 

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