L’importanza di chiamarsi Doig. La querelle che ha visto l’artista al centro di una battaglia legale

Una saga legale durata quasi dieci anni incentrata sulla paternità di un dipinto proveniente dal carcere canadese

Una strana saga legale iniziata nel 2013, ha visto protagonisti il gallerista Peter Bartlow e un ex ufficiale penitenziario di nome Robert Fletcher contro l’artista Peter Doig. Due contro uno per stabilire che un dipinto in possesso dell’ufficiale penitenziario fosse in verità una delle prime opere dell’artista, realizzata presumibilmente in un periodo trascorso in carcere nel 1976 ma di cui Doig ne negava la paternità, rendendola quindi priva di valore agli occhi del mercato.

L’opera in questione, firmata “Pete Doige ’76” (spoiler: l’errore di ortografia del cognome non è un errore, ma questo lo sapremo solo alla fine) raffigura un paesaggio desertico ed è stata effettivamente realizzata da un detenuto del Thunder Bay Correctional Center, la prigione dell’Ontario, in Canada, dove lavorava Fletcher, il quale lo ha poi acquistato dal detenuto per cento dollari. Solo nel 2011, un amico ha notato la firma e ha avvertito Fletcher della possibilità che l’opera fosse uno dei primi Peter Doig, e quindi un dipinto piuttosto prezioso. Con questa idea in mente, l’ex ufficiale ha contattato prima Bartlow, con sede a Chicago, per chiedere aiuto nella vendita del lavoro e poi anche Sotheby’s, che ha espresso grande interesse per il lavoro se si fosse riusciti ad autenticarlo adeguatamente. Ma quando Doig ha negato categoricamente di aver realizzato il dipinto o di aver mai trascorso del tempo nel Thunder Bay Correctional Center, Fletcher ha sostenuto che il rifiuto era dovuto a una vendetta personale e lo ha trascinato in causa.

Il discusso dipinto di “Peter Doige”

Da qui, ha inizio la storia infinita per dimostrare che Doig avesse realmente passato del tempo nel carcere canadese, ma nessun documento è ruscito a dimostrare che l’artista avesse precedenti penali. Nel 2013, gli avvocati sono riusciti a rintracciare una donna di nome Marilyn Doige Bovard che ha confermato di avere un fratello di nome Pete Doige che ha effettivamente trascorso del tempo nella prigione dell’Ontario negli anni ’70 ed era stato un pittore, sebbene fosse morto nel 2012. Secondo il deposito legale più recente, la donna ha persino affermato che «la scena del deserto raffigurata somigliava a un’area dell’Arizona dove lei e la madre di Doige avevano vissuto dopo aver divorziato dal padre», e ha fornito la documentazione per dimostrare che suo fratello aveva risieduto nella zona, documento d’identità dello studente, patente di guida e la tessera del sindacato dei falegname, ma niente. I querelanti hanno continuato con il caso.

Nel 2016 arriva la conferma definitiva dal giudice di Chicago che stabilisce che Doig «non ha assolutamente dipinto» l’opera contestata. Dopo la sentenza, Doig si è mosso per ottenere un risarcimento ottenendo così 2,5 milioni di dollari per aver insistito davanti all’evidenza: «dovrebbe essere diventato indiscutibilmente chiaro ai querelanti e al loro avvocato che le loro affermazioni non avevano alcuna possibilità di successo e, infatti, che le affermazioni erano di fatto prive di merito, ma hanno continuato a insistere».
L’avvocato di Doig ha affermato in una dichiarazione che qualsiasi denaro che l’artista avrebbe ricevuto a seguito di questa sentenza sarebbe stato donato a un’organizzazione no profit che mira a offrire alle persone in detenzione maggiori opportunità di praticare arte.
Nel frattempo l’orgoglio è duro a morire e Bartlow, il gallerista di Chicago, ha dichiarato al New York Times di credere ancora che Doig sia il vero autore dell’opera, e che sta pensando di richiedere un ulteriore appello «o altre opzioni». Essere o non essere, questo è il problema.

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