“L’arte degli anni Dieci è un’arte orfana, cresciuta per strada, senza padri o educatori. È un’arte figlia di nessuno, e quindi, fino ad oggi, da nessuno riconosciuta nell’insieme del suo fenomeno”. Si chiude così la prefazione di Lucrezia Longobardi, critica d’arte e curatrice, al suo saggio intitolato 15 Ipotesi per una storia dell’arte contemporanea – Appunti per una lettura del XXI secolo (Castelvecchi, 2022, parte della collana Fuoriuscita, diretta da Christian Caliandro).
In una sintesi concisa e puntuale, l’autrice traccia i contorni di un percorso a ritroso volto a far emergere come, nonostante l’eredità poverista per anni abbia proiettato le sue dense ombre sulla giovane arte italiana, oggi le ricerche contemporanee stiano mostrando interessanti sviluppi, non solo per la validità dei loro intenti ma anche per la natura dei loro interventi, sempre più aderenti alla realtà politica e culturale odierna.
“Non si è mai registrata come negli anni Dieci – scrive Longobardi – una distanza tanto eclatante tra artisti e sistema”. Ma è proprio nell’isolamento di quell’emarginazione che gli artisti contemporanei hanno trovato nuovi equilibri in grado di ricostruire un tessuto fatto di dinamiche di sopravvivenza forse ancora confuse ma avvincenti. L’arte italiana del XXIesimo secolo si è allontanata grazie ai suoi mezzi dal consenso borghese, è scesa in strada provocando uno strappo sociale che da tempo non era così rivoluzionario, si è insinuata nei percorsi più laterali per rovesciare la linearità di un sistema che tutt’oggi forse non è in grado di capire i suoi slanci, i suoi desideri e le sue volontà.
Secondo l’autrice, infatti, questo decennio, rispetto a tutti gli altri che si sono susseguiti nel secondo dopoguerra è stato l’unico in grado di trovare un’autonomia di linguaggio e di stile. Per quanto nel XXesimo secolo si siano alternati autori validi e scene più o meno definite, nessuno è stato in grado di scavalcare la “Grande narrazione” dell’Arte Povera.
Se ci pensiamo bene, questo è assolutamente comprensibile: “Gli anni Sessanta di Celant e della sua Arte Povera – scrive Longobardi – sono stati gli anni dell’irresistibile ascesa dell’arte americana”, un cambiamento tale per cui, all’arte italiana per non soccombere non rimaneva altro che uscire dalla sua dimensione locale per abbracciare i nuovi linguaggi “bastardi” della performance e delle installazioni.
Il segno che ha lasciato lo sappiamo è un solco profondo e tuttavia si è trattato di un fenomeno che non è stato in grado di inglobare i nuovi orizzonti che si aprivano alle porte del nuovo Secolo. Negli anni Novanta non ci sono stati movimenti, non ci sono stati gruppi ma una generazione allo sbando, ancora vittima di dinamiche di patriarcato che ha spesso usato il linguaggio pubblicitario come unica arma per difendersi.
Inutile tentare di costruire una storia comune per questo periodo storico, spiega Longobardi, caratterizzato da una frammentazione sempre più evidente, fatta di stelle fugaci e di fenomeni di difficile lettura.
Si passa così attraverso gli anni Duemila, che l’autrice definisce spartiacque, un periodo di passaggio, fatto per lo più di ricerche che emulano e guardano al passato, che sancisce definitivamente la sparizione dell’ombra poverista e il raggiungimento di una piena autonomia narrativa.
Grazie allo “sforzo archeologico” degli anni Duemila si arriva così agli anni Dieci e alle 15 ipotesi per una storia dell’arte contemporanea, quindici esempi di artisti che, come i registi Neorealisti, rompono con il passato riversandosi in strada, prendono le distanze sia dalle estetiche patinate che dagli atteggiamenti nostalgici dei loro predecessori per diventare grandi osservatori del nostro momento storico.
Andrea Mastrovito, Giuseppe Stampone, Adrian Paci, Lara Favaretto, Chiara Fumai, Eugenio Tibaldi, Domenico Antonio Mancini, Carlo e Fabio Ingrassia, Rossella Biscotti, Giorgio Andreotta Calò, Marinella Senatore, Gian Maria Tosatti, Arcangelo Sassolino, Roberto Cuoghi, Petrit Halilaj.
Dalle azioni collaborative della Senatore ai progetti di lunga durata di Tosatti che coinvolgono le comunità locali, dai meticolosi studi delle periferie di Tibaldi alle distorsioni temporali di Andreotta Calò, la lettura di Longobardi, seppur parziale, illumina una possibile via di riscatto dal pessimismo della critica d’arte attuale che spesso nega l’esistenza di una forza propulsiva dell’arte italiana attuale.
Tuttavia si sollevano alcuni dubbi e riflessioni non molto rassicuranti sul panorama tracciato. Come si può ricostruire lo scollamento tra gli artisti e il sistema? Che cosa manca all’arte di oggi per essere davvero rivoluzionaria? Quali sono gli strumenti per dare un sostegno critico agli artisti? Non c’è pericolo che dietro alla tendenza di un pensiero laterale contrapposto a quello istituzionale non ci sia nascosto lo spettro dell’omologazione?
La mancanza di una presenza filosofica e teorica chiara e l’assenza, come afferma Christian Caliandro nel suo saggio L’arte rotta, di spazi di dissenso sicuramente alimentano un sistema votato a uno sterile autocompiacimento tutt’altro che evolutivo che rischia di rallentare la costruzione di un’impalcatura critica solida poco utile agli artisti.
Sarebbe opportuno, infine, ampliare il discorso tenendo in conto gli aspetti strutturali ed economici di un Paese che relega a un ruolo marginale l’artista e gli apparati critici che gravitano intorno al mondo dell’arte. Punti ben noti ma non trascurabili in una lettura del XXIesimo secolo che sia esaustiva e il più possibile realistica.