Il futuro dell’arte a Roma? Ce ne parla Giacomo Guidi, fondatore del Contemporary Cluster

Il ruolo del contemporaneo, dei musei e degli artisti secondo il gallerista romano: «i giovani devono avere una coscienza storica»

Il Contemporary Cluster è ormai ampiamente riconoscibile come una delle realtà più prolifiche della Capitale. Il 2022 è stato un anno segnato da un calendario espositivo fittissimo, incontri e presentazioni di libri che non hanno mai lasciato spente le luci della galleria di Giacomo Guidi, incastonata nella cornice di Palazzo Brancaccio, nel quartiere Esquilino a Roma. Dopo aver lasciato lo storico Palazzo Cavallerini Lazzaroni, in via dei Barbieri 7, la sede di via Merulana è infatti il nuovo spazio polifunzionale che Giacomo Guidi desidera far percepire come un unicum nella Capitale. Dopo più di 15 anni di esperienza vissuti in un’epoca di grandi cambiamenti per il mondo dell’arte a tutto tondo, il Contemporary Cluster vuole essere oggi il punto di riferimento per un’offerta culturale alternativa, lontana dalle logiche tradizionali che regolano ancora l’art system. L’intelligenza collettiva alla base della filosofia che Guidi applica al suo metodo di fare impresa nell’arte è segno distintivo di un progetto che guarda con attenzione alle dinamiche del panorama contemporaneo. La collaborazione e la contaminazione si fanno strumenti indispensabili per procedere verso quelli che sono i principali obiettivi del gallerista romano: creare valore, rinnovare un sistema e riscrivere le regole che fino a oggi abbiamo seguito come fossero l’unica verità possibile. 

Giacomo Guidi, PH. Cloro

Cos’è oggi il Contemporary Cluster?

«Il mio obiettivo era quello di far manifestare la vera essenza del Contemporary Cluster: uno spazio che vuole affermare altro rispetto a una galleria canonica. Mi rendo conto ormai, e il tempo sta dimostrando la correttezza di questo mio pensiero, che il rapporto tra contenuto e contenitore è oggi completamente da ridefinire. L’idea di esporre i lavori di un’artista nuovo ogni mese, in uno spazio bianco e anemico, non è più un atteggiamento contemporaneo, bensì anacronistico. Vedo invece oggi una maggiore apertura ad accogliere espressione visioni artistiche diverse e lasciare che si contaminino come io ho cercato di fare da sempre durante la mia carriera. Contemporary Cluster ha sempre sostenuto l’idea che un designer è importante quanto un artista visivo, uno street-artist quanto un architetto, uno stilista quanto un fotografo e cosi via… oggi vedo rispetto a questo la meraviglia negli occhi di molti, quando invece tutto ciò nel nostro caso è realtà ormai da molto tempo».

Cosa vuole rappresentare la tua galleria per gli artisti? 

«La conferma della correttezza della linea di Cluster è ormai sotto lo sguardo di tutti: io oggi mi sento felice e soddisfatto di aver sdoganato un atteggiamento diverso a quello che era la norma. C’è una nuova carburazione e una reinterpretazione degli spazi in base al contenuto che ormai fa sì che il concetto canonico di galleria non abbia più senso di sopravvivere. Quello che per me è importante, come lo è sempre stato, è che tutto ciò che di nuovo passa per il Contemporary Cluster deve cambiare l’atteggiamento dell’artista che qui opera. Cluster deve essere il luogo in cui si mette in moto una riflessione condivisa che porta allo spostamento dalla comfort zone dell’artista stesso…allora possiamo parlare di progettualità, di ricerca, di una crescita che porta i diretti interessati a uno stadio successivo rispetto a quello da cui erano partiti».

Come vuoi che sia percepita dal pubblico la tua galleria?

«Tutto quello che presentiamo oggi al pubblico è nella mia testa da molto tempo. Nulla accade senza strategia e programmazione di almeno un anno, tutto viene calcolato al millimetro. Contemporary Cluster dovrà essere lontano da qualsiasi forma di accomodamento: quando il Cluster viene troppo capito, vuol dire che è arrivato il momento di sterzare. Non ti potrai mai abituare all’idea di Cluster come lo conosci, lui cambierà sempre: io non sono legato a spazi, per me lo spazio non è una condizione, non devo subirlo, altrimenti sarebbe più importante il contenitore che il contenuto. Il Contemporary Cluster vive al di fuori di questo palazzo, non è un caso che quest’anno abbiamo organizzato Bagni Misteriosi a Ostia; non è un caso che abbia preso vita il progetto Spazio forma ritmo – e a “Capo”, a cura di Davide Silvioli, nel Museo Civico di Anticoli Corrado per celebrare Giuseppe Capogrossi, e non ci fermeremo qui. Lo spazio non è un punto di arrivo, lo diceva Apollinaire: “La galleria è un luogo di attraversamento”, uno spazio da cui si entra da un punto e si esce da un altro, cambiati dall’esperienza che nel mezzo si è vissuta». 

…e adesso quali sono i prossimi obiettivi?

«Ci stiamo muovendo simultaneamente su tre fronti: il lavoro istituzionale con i musei, il lavoro fieristico estero, il lavoro di consolidamento che possiamo mettere a disposizione degli artisti nei nostri spazi di residenza e la proposta in galleria che sarà sempre proiettata verso un atteggiamento che con Roma e l’Italia non ha nulla a che spartire. Lo diceva Carmelo Bene: “Penso che loro sono stati fottuti dal linguaggio”, il problema è degli altri, non è utile una comparazione. Tu puoi mettere a confronto delle cose che tra loro sono simili, il Contemporary Cluster sta altrove. Occorre essere sempre al passo con il tempo che corre se decidi di lavorare con il contemporaneo. Vedo intorno a me persone attaccate alla tradizione e questo è paradossale. Questo non è il mio lavoro, il mio modo di stare in questo settore è tutt’altra cosa».

Uno dei fenomeni più caldi del periodo post pandemico è il proliferare dei run-space, opinione a riguardo?

«Fino al momento dello scoppio della pandemia, l’atteggiamento di quasi tutti gli operatori del settore non era proteso a osservare ciò che sta vicino alle nostre vite perché è da considerare banale. È sempre molto più semplice prendere un aereo e andare a bere un drink a Miami, a Basilea o altrove per poter dire di far parte di un cosiddetto art world. Per me questo è solo un modo per supplire alle mancanze della propria vita, seguendo un circo che si sposta. Parallelamente gli artisti, a Roma sopratutto, si sono resi conto che il collezionismo era lontano, non aveva interesse nei loro confronti e seguendo una logica antropologica si sono avvicinati per sopravvivere insieme. A quel punto, con la pandemia in corso e l’impossibilità di viaggiare, cosa ha pensato bene di fare il mondo dell’arte? Guardare cosa era cresciuto nelle vicinanze. Tutti hanno dato attenzione a questa fenomenologia perché era grazie agli altri che rimanevano vivi. Se non ci sono più spazi da frequentare, non è più possibile fare i frequentatori d’arte. Quello che sottolineo io è però più importante di questo gioco di interessi. Quello che noto è il senso di comunità, di cui già avevano affermato il peso grandi nomi della storia dell’arte contemporanea come Joseph Beuys, come Luciano Fabro e Hidetoshi Nagasawa con la casa degli artisti a Milano. Anche se qui non parliamo di collettivi, in quanto si tratta di gruppi di artisti che condividono spazi, ho rivisto oggi quella potenza avanguardista che viveva negli anni ’60 e ’70 con artisti che facevano falange nella creazione di un pensiero comune».

Hidetoshi Nagasawa, Ph. Rodolfo Fiorenza

Roma come è cambiata nel tempo?

«In primis, vedo in Roma una qualità e una potenzialità enorme, gigantesca, sono fiero della mia città e credo che quello che sta succedendo qui è un unicum in tutta Italia. Questo è bellissimo, ma solo se ci limitiamo analizzare lo stato delle cose dal punto di vista artistico. Da un punto di vista strutturale, ci sono persone che fanno finta che il tempo non passi, si comportano come se nulla li toccasse: le stesse mostre, gli stessi spazi…lo trovo angosciante. Sono gallerie che hanno dialogo solo con se stesse. Non vedo un progetto, una visione. A Roma manca Plinio De Martiis, manca Gian Tomaso Liverani… quando aprii la mia prima galleria venne da me Ugo Ferranti, mi regalò dei libri e mi diede il benvenuto. Dove sono persone come queste? Roma ha cominciato ad avere problemi quando si sono perse le validità dei ruoli. Achille Bonito Oliva una volta disse una cosa apparentemente molto semplice: “L’artista fa l’opera, il gallerista la vende, il collezionista la compra, il museo la storicizza”. Fino a che queste figure rimanevano nel loro ruolo tutto filava per il meglio. Oggi tutto si interseca, anche le idee si mischiano e c’è poca chiarezza. Quello di cui sono più triste però è che nella mia città non vedo musei in grado di rappresentare ciò che è stata e che oggi Roma».

Spiegati meglio, quale sarebbe secondo te oggi il ruolo del museo nei confronti del contemporaneo?

«Partiamo da un presupposto, in teoria la funzione dei museo sarebbe quella di conservare i patrimoni dell’uomo. Quando noi mettiamo accanto alla parola museo la parola contemporaneo inneschiamo una contrazione etimologica, in quanto ciò che è contemporaneo non è storicizzabile, quindi non sarebbe corretto inserirlo in un contesto come questo. Noto, a prescindere dalla questione etimologica, una mancanza di una concezione del museo come cosa pubblica. Il museo non è del direttore del museo che lo presiede, il museo è dei cittadini. Il museo non deve operare per accrescere l’importanza di chi ne è il direttore. Quella figura dovrebbe lavorare sulla forza dell’istituzione che rappresenta perché fa parte di un tessuto urbano, sociale e culturale che appartiene alla cittadinanza. Il museo deve operare per abbassare la distanza che c’è tra il pubblico e ciò che l’uomo è stato in gradi di produrre. Un museo deve essere fedele alla sua missione originaria e deve osservare da vicino ciò che il territorio a se circostante produce, crea, magari mettendolo in dialogo con qualcosa che a quel territorio non appartiene». 

E cosa dovrebbero fare i musei per rispettare la loro missione?

«Un museo d’arte contemporanea a Roma dovrebbe aiutare la città a crescere artisticamente. Mi ha fatto piacere vedere la Galleria Nazionale aprirsi a progettualità più sperimentali, creando combinazioni con parte della sua collezione. Sono stato felice quando finalmente quest’anno il MACRO si è dimostrato estremamente multidisciplinare: moda, arte, design… evviva, lo diciamo da anni che questa era la strada giusta. Però dispiace molto vedere un MACRO così poco frequentato, questo mette in evidenza il fatto che ci sia una distanza con il pubblico, quando quello dovrebbe rappresentare il cuore più pulsante della città, più sporco, sperimentale, attaccato a quelli che sono i figli di Roma, della sua comunità. In questo caso osservo l’opposto: c’è una volontà esterofila di importare ricerche che non dovrebbero essere presentate in quella cornice. Bellissima la mostra sul lavoro di Nathalie Du Pasquier, ma perché allora non farla al MAXXI? Sarebbe necessario dare maggiore spazio ai giovani artisti romani, comprare i giovani artisti romani, metterli in dialogo con altri giovani di altre realtà estere. Umberto Eco durante una sua conferenza a Bilbao intitolata Il museo del terzo millennio dice “Il mio ideale è quello di un museo che serva a capire e godere un solo quadro”. Il museo dovrebbe mostrare tutto quello che ha preceduto l’arrivo di quel singolo elemento. A noi non viene mai spiegato da dove provengono le cose, siamo bombardati da affermazioni estemporanee. I padri sono importanti. Se tu sei supportato dalla storia è il tempo a darti ragione. Sarebbe giusto analizzare l’oggetto della discussione anche da una prospettiva diversa, deducendo ciò che potrebbe produrre in futuro. L’arte deve essere riconosciuta come un dispositivo da attraversare, che stimoli il dialogo e la riflessione. Altro punto importante: un museo dovrebbe uscire dal museo. Trovo lodevole il progetto del MAXXI L’Aquila, i progetti che riaffermano i territori. Che il contemporaneo sia utile a riportare l’attenzione su ciò che è stato dimenticato! Il contemporaneo serve a rigenerare».

Che consiglio daresti alle nuove generazioni di artisti?

«Oggi stiamo vivendo un momento al di fuori dell’ordinario, sono i primi giorni dopo il terremoto. C’è un importante pezzo del vecchio mondo dell’arte che si sta aggrappando ai giovani per non morire. Esistono strutture parassitarie che stanno cercando di mettere la propria firma sulle gesta delle nuove leve per accaparrarsene la riconoscenza e il merito di averli scoperti. Tutto questo è mortale. Ci sono a mio avviso molti artisti giovani che qui a Roma hanno ottime possibilità di avere una caratura importante nell’arco dei prossimi anni. A loro consiglio di rimanere indipendenti più tempo possibile. Ho già visto bruciare giovani curatori e artisti che sono stati mangiati dal sistema stesso. Ciò a cui i giovani non possono rinunciare è una coscienza storica. In alcuni casi vedo copiare oggi lavori che sono già stati prodotti durante gli anni ’70 o ’80. Questo è scorretto perché non puoi lavorare basandoti sull’ignoranza altrui. Manca inoltre qualcuno che vada alle mostre e dica che alcune cose non hanno qualità. Dov’è la critica? Non c’è nessuno che argomenti con coscienza quello che viene esposto. Non c’è nessuno che parli in negativo, o si scrive per complimentarsi o non si scrive. C’è qualcuno che ha il coraggio di guardare negli occhi un giovane artista, dicendogli “Bravo per l’impegno ma questo lavoro lo ha fatto Calzolari nel ’75, studia!”. I giovani devono avere un’etica del lavoro e devono lavorare con coscienza».

Info: www.contemporarycluster.com