In fisica, il miraggio è un fenomeno ottico particolare, che consiste nell’illusione della comparsa di false visioni, di forme apparentemente reali ma generate, di fatto, o da specifiche condizioni atmosferiche (la deviazione dei raggi di luce causata dalla differenza di temperatura e densità dell’aria) o ancora da “stati di allucinazione, di malessere fisico, di turbamento psicologico” (Treccani). In pittura – e nella pittura figurativa in primis – il coefficiente d’inganno che accompagna la percezione ordinaria è elevato a potenza. Se nel regno della figurazione il coordinamento intellettuale dei segni, delle forme e dei dati cromatici conduce alla creazione di soggetti riconoscibili, e se questi soggetti vengono di volta in volta inseriti in narrazioni simboliche più o meno condivise, ciò non implica che tali narrazioni siano necessariamente vere. In pittura, quindi, il miraggio, o il tranello, non risparmia l’organizzazione simbolica dei contenuti della percezione, agendo ai livelli più profondi dei significati metaforici. L’incertezza interpretativa, l’inevitabile indeterminazione e la messa in questione della mente e dello sguardo sono i grandi temi attorno a cui ruota Mirages, mostra che segna l’esordio dell’artista americana Jenna Gribbon (Knoxville, Tennessee, 1978) in un’istituzione europea.
Allestite, fino al 19 febbraio 2023, nella Pattern Room di Collezione Maramotti, a Reggio Emilia, le dieci nuove opere di Gribbon, concepite appositamente per la mostra, mettono in campo un inganno amplificato dall’intimità dell’autrice con il soggetto dei quadri esposti, la musicista Mackenzie Scott (in arte Torres), compagna di Gribbon dal 2017. In una recente intervista rilasciata a Will Hine su “Ocula”, l’artista ha chiarito come l’intimità non sia affatto il nucleo discorsivo centrale del suo lavoro; l’intimità dei suoi quadri – spiega – è infatti solo “costruita”, inautentica, nella misura in cui è la stessa epoca in cui viviamo – “l’epoca più voyeuristica di sempre” – ad esserlo. Persino nel piccolo formato degli snapshots, come Unloading glance, Mackenzie non è mai del tutto sorpresa, figlia qual è di una generazione perfettamente a suo agio nella presa di possesso e nel controllo della sua stessa immagine.
Apparentemente alla mercé dell’artista, che controlla il suo corpo allo stesso modo in cui organizza il punto di osservazione degli sguardi esterni, Mackenzie – che appare bendata in più di un’occasione (M projected; In bed with a mirror) – si ribella al dispositivo ottico che la manipola: se in Here for you la giovane compagna dell’artista, sdraiata su un tavolo, è totalmente in balia di un sistema di luci artificiali e dell’occhio di Gribbon, che gestisce otticamente la scena nella sua interezza, in altre occasioni questa non teme il confronto aperto con la macchina di potere che la domina, prima togliendosi la benda (Big peek), poi recuperando la frontalità quasi sacra dell’autocoscienza ritrovata e l’energia di un corpo che arde. È con quadri come M in (green screen) flames che Gribbon conduce la sua personale battaglia contro un corpo nudo che, fiaccato dai ritmi folli imposti dal web, è una bestia mansueta, ormai resa totalmente inoffensiva. Il processo di riabilitazione del corpo passa infatti, per Gribbon, dall’intervento del pittore e dei mezzi ad esso concessi: sulla superficie già grassa, in cui il dosaggio della pasta pittorica denuncia una profonda sicurezza nel tratto – la curatrice Alison Gingeras ha definito Gribbon una maestra dell’alla prima, della stesura immediata – l’artista ha scelto di alzare il grado di saturazione dei capezzoli della compagna. Un gesto netto, consapevole, che proprio nella sua semplicità restituisce al corpo femminile la sua storica componente di eversione.
Jenna Gribbon. Mirages
fino al 19 febbraio
Collezione Maramotti – via Fratelli Cervi, 66, Reggio Emilia
info: www.collezionemaramotti.org