L’Odissea spaginata di Tommaso Spazzini Villa, un viaggio verso nuove possibilità espressive

Alla Galleria Mattia De Luca l'artista dialoga con la colombiana Marcela Calderón Andrade in una mostra che esplora le infinite letture della realtà

L’OULIPO, Ouvroir de littérature potentielle – italianizzato OPLEPO, Opificio di letteratura potenziale – è stato un gruppo di intellettuali e letterati fondato nel 1960 dallo scrittore e dal matematico francesi Raymond Queneau e François Le Lionnais con l’obiettivo di scardinare i canoni della letteratura alla ricerca di nuove possibilità espressive. L’assunto alla base di questo sodalizio è stato, sin dal principio, quello di rompere le catene della letteratura, all’epoca considerate i contraintes – ovvero le “costrizioni” – imposte dal modello scrittorio standardizzato per aree. Numerosi furono gli apporti che altre discipline portarono alla causa, in particolare la matematica, con l’introduzione del calcolo combinatorio – riscontrato per la prima volta già nel 1961 con Cent mille milliards de poèmes di Queneau – nella stesura dei testi. La presenza di una troppo rigida “scala di grigi” nella struttura scrittoria, nei formalismi e nell’ispirazione dei testi ha così stimolato figure di primissimo piano del panorama culturale francese – Georges Perec e Jacques Rouboud su tutti – ma non solo: Italo Calvino fu fra i primi ad aderire all’OULIPO e a mettere in pratica questa nuova gamma di soluzioni a un livello che rimane oggi ineguagliato per qualità degli esiti.

Se da un lato un antecedente può essere riscontrato nella poesia futurista di Filippo Tommaso Marinetti, non si può negare la rilevanza di questa esperienza per la nascita dell’arte verbo-visuale italiana e internazionale: dal Gruppo 70, al Gruppo 63 fino al più celebre collettivo di Fluxus o battitrici e battitori liberi del calibro di Ketty La Rocca, Mirella Bentivoglio, Arrigo Lora Totino e Luca Maria Patella.

Nomi altisonanti a parte, la vera rivoluzione che si compie con l’OULIPO avviene ancor prima che i martelli possano colpire il rullo delle macchine da scrivere; l’accento viene infatti spostato dall’impianto generale del testo al singolo lemma che lo compone. Ogni parola, ogni significato che questa esprime – spesso molteplice –, ogni posizione che questa occupa diventa solamente “potenziale”, cioè passibile di essere altro, altrove, con un diverso significato.

Nessun vincolo, aucune contrainte.

Prima di tutto il mare (p. 203)

Un balzo indietro. Prendiamo l’archetipo del romanzo: l’Odissea di Omero. Se per certi versi il testo fa avanguardia essendo scritto in ben tre diversi dialetti dell’epoca – greco attico, ionico ed eolico – la gran parte della struttura risponde a codici molto severi. Nella tradizione orale gli aedi, o in alternativa i rapsodi, pur recitando mnemonicamente utilizzavano le stesse rigide formule di quello che sarebbe stato poi il testo scritto: esametri dattilici che alternano nei sei piedi un dattilo e uno spondeo. La divisione in ventiquattro libri si compone così di ben dodicimila centosette esametri, guidati tutti dalla medesima regola.

Ho tanto sofferto (p. 205)

Un balzo in avanti. Dal 2018 al 2021 Tommaso Spazzini Villa (Milano 1986), artista romano d’adozione, visita diverse carceri italiane portando con sé un’Odissea – versione Einaudi – completamente spaginata. Uno per uno consegna ai detenuti un foglio del libro omerico con la richiesta di creare, utilizzando le parole contenute nella pagina, una frase di senso compiuto che potesse raccontare una personale riflessione di quel preciso istante. Segnare le parole con la penna, la matita, l’evidenziatore cosicché leggendole una dopo l’altra si potesse comporre un periodo nuovo. Recuperati a uno a uno i fogli dalle mani dei detenuti l’artista riordina l’Odissea, ricomponendo in realtà un poema completamente diverso dal testo di partenza. Le Cinquecento sessantasette pagine del poema epico raccontano ancora delle storie, ma attraverso sintassi, possibilità espressive, condizioni psicofisiche, umori sempre diversi a sé stessi.

Nessuna prosa, nessuna poesia, cruda realtà che si fa letteratura in una serie di Autoritratti che, al colmo della regola, sono perfettamente anonimi perché siano autoritratto di un totale e molteplice sentire. Di uno scivolare adagiandosi. Ritratti di un certo dover stare al mondo.

Mi hai dato figli bellissimi e io così misero (p. 219)

Agli innumerevoli lemmi della parafrasi italiana del testo, la totale casualità dell’assegnazione e lo sterminato campionario umano si fanno pallottoliere delle parole di Omero, restituendoci quella che ricorda una sofferta raccolta di poesie scritte senza regole, senza standard. Non esistono libri, non ci sono più esametri dattilici, niente dattili, spondei, trochei. Il corpus epico si frastaglia, esplode e si piega su sé stesso con durezza e pure talvolta con inattesa gentilezza. Il testo viene letteralmente e concettualmente scompaginato dalla selezione di vocaboli fino a quel momento solo “potenziali”, ma che finalmente diventano “in atto”. La fame, la nostalgia, l’idillio, la speranza, il ricordo felice, l’inaspettato, la rabbia, lo stallo, il dolore e l’attesa vengono fuori da questa selezione totalmente alogica, non ipotizzabile. Con esse trovano spazio fra le quattro mura e sul foglio il mare spesso, gli abbracci della famiglia talvolta. Cade la barriera formale, strutturale, sintattica, cadono le regole dalle mani di chi presumibilmente ha avuto già modo di infrangerle, cade l’aura – finalmente – della solennità epica per risorgere in un’antologia ulcerosa, lacera e per questo incredibilmente fragile. Sono voci che gridano con le parole colte del poema per antonomasia una verità agghiacciante, esistita prima e dopo quei fogli eppure mai degnata d’attenzione. Così come il poema omerico affonda le sue radici in un tempo indicibile perché sempre altro da noi, e per la somma delle congetture sulle sue origini e delle sue pagine si fa universale, così rivive e si fa collettivo: accogliendo le dichiarazioni di chi, troppo spesso, nelle carceri viene reso estraneo a noi. La potenza del paradosso che risiede nell’opera sta nel suo essere racconto di viaggio e testo di immobilità in esatto egual modo.

Fa che io arrivi prima alla fine (p. 175)

Installation view, courtesy Galleria Mattia De Luca

Installation view, courtesy Galleria Mattia De Luca

Questo lavoro al confine fra letteratura combinatoria e arte concettuale sarà visibile negli spazi della Galleria Mattia De Luca fino al mese di gennaio 2023 all’interno della mostra La Fortuna della Fragilità, primo atto di una nuova sezione spin off della galleria romana di Piazza Campitelli 2: DL projects. Questa nuova piattaforma espositiva nasce dalla necessità della Galleria di aprirsi all’orizzonte ipercontemporaneo con un momento ad hoc dedicato agli artisti emergenti e middle career come anima coesistente con l’abituale programmazione più storicizzata. Nella mostra d’apertura del progetto, La Fortuna della Fragilità, Tommaso Spazzini Villa dialoga con l’artista colombiana Marcela Calderón Andrade sul tema del “fragile” su più livelli di lettura: dalla società all’ecosistema, dalla politica alla materia inerme fino alla psicologia e alle condizioni di alienazione. In questa cornice espositiva, la sala 3 della Galleria Mattia De Luca ospita Autoritratti [Odissea] in formato video – della durata di poco più di un’ora (01:01:59) – nel quale l’artista, sfogliando il nuovo meta-testo, legge una ad una le frasi che i partecipanti hanno estrapolato dalle pagine dell’Odissea Einaudi. L’opera viene così a costituirsi atto ultimo di un percorso all’interno delle fragilità umane e ambientali come corollario concettuale del tema, mettendo in scena la condizione straniante e precaria dei detenuti in un formato verbo-visuale.

La notte mi tenne con sé e imploravo che non mi portasse anche la pazzia, ero sfinito (p. 261)

La Fortuna della Fragilità
info: www.mattiadeluca.com

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