Come tipicamente accade, in occasione del centenario o anniversario di turno, la città è invasa di tentativi – a volte stentati e improvvisi, a volte ragionati e perfino stupefacenti – di riportare alla luce memorie culturali italiane e non – per certi versi sbiadite fino ad un momento prima –. A Roma, per il centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini (Bologna, 5 marzo 1922 – Roma, 2 novembre 1975), le iniziative di ogni tipo sono numerosissime, ancor di più le mostre a lui dedicate. La più grande e la più discussa è, senz’altro, Pier Paolo Pasolini. TUTTO È SANTO, megalitico progetto espositivo sviluppato in tre sedi museali iconiche – Galleria Nazionale d’Arte Antica Palazzo Barberini, Palazzo delle Esposizioni, MAXXI, Museo delle Arti del XXI secolo – e concepito e curato collettivamente da Michele Di Monte, Giulia Ferracci, Giuseppe Garrera, Flaminia Gennari Santori, Hou Hanru, Cesare Pietroiusti, Bartolomeo Pietromarchi e Clara Tosi Pamphili.
L’idea è quella di un’unica grande mostra ma distribuita in tre sedi diverse e altrettante tipologie. Al suo interno s’intrecciano linguaggi artistici, opere originali, fonti e documenti d’archivio. Tre direttrici autonome, specifiche per ogni sede, concepite per potersi integrare, in modo complementare e per sollecitare tutte quelle riflessioni sulla produzione pasoliniana che potremmo dire inesauribili, complice l’influenza che ha esercitato e ancora esercita più che mai, sullo sguardo di chi oggi e sempre, ne è immancabilmente affascinato. «Tutto è santo», dice il saggio Chirone nel film Medea (1969) – e dunque da qui il titolo del progetto – a evocare la misteriosa sacralità del mondo pasoliniano, composto da mondi plurimi – il sottoproletariato e il mondo borghese, il mondo primordiale, arcaico e religioso, e quello razionale e laico – . La grande mostra si dirama in tre filoni tematici, tutti incentrati sul corpo: Il corpo poetico (Palazzo delle Esposizioni), Il corpo politico (MAXXI), Il corpo veggente (Palazzo Barberini).
Mentre ne Il corpo poetico l’intento è ricostruire le poetiche dell’universo pasoliniano attraverso fonti di vario genere, e nel corpo politico ritrovare le medesime, ibridate o confluite nelle opere di artisti contemporanei che ne sono stati influenzati, nel corpo veggente il discorso è basato su quello che potrebbe definirsi, il retro-sguardo pasoliniano: fonti letterarie, pittoriche, teatrali, alle quali Pasolini si è, letteralmente, abbeverato, per plasmare l’opera e il pensiero. Il corpo veggente si sviluppa secondo un criterio simile al montaggio cinematografico: dipinti insieme a sculture, fotografie, libri, illustrano il potere di sopravvivenza delle immagini trasfigurate nell’opera di Pasolini proprio come fossero figure. Cardine e criterio alla base dell’ideazione espositiva, è infatti proprio il concetto di figura coniato dal filologo Erich Auerbach nel suo iconico capolavoro, Mimesis (1956, la prima edizione italiana). Auerbach individua nella storia della letteratura (da Omero, a Dante, e così proseguendo, fino a Virgina Woolf) il concetto chiave di figura, plasmando quello che definirà realismo figurale: «figura e compimento si corrispondono senza però che il significato di ciascuna ne escluda la realtà; un avvenimento di significato figurale conserva il suo significato letterale e storico, non diventa un puro simbolo, rimane avvenimento» [corsivo ns., cit.]. Ma soprattutto per Auerbach figura implica una prefigurazione anticipatrice del presente e contenuta nel passato: «Secondo tale concezione, un fatto che accada sulla terra, indipendentemente dalla forza che gli deriva dalla sua concerta realtà hic et nunc, significa non soltanto sé medesimo, bensì anche un altro fatto che esso preannuncia o, confermandolo, ripete» (cit.) Dunque l’antica immagine del passato si ripete nel presente, ogni volta sotto una veste nuova.
Il percorso espositivo è diviso in sei sezioni, intitolate alle figure del corpo, tema che accomuna anche le tre sedi espositive. Nel Prologo, Il corpo virtuale delle immagini, viene rievocato il precoce contatto di Pasolini con la storia dell’arte e il mondo pittorico, grazie all’influenza esercitata dal suo grande professore, Roberto Longhi, e in particolar modo dal corso che egli tenne all’Università di Bologna nel 1940-41 dedicato a Masolino e Masaccio (e confluito poi negli importanti studi longhiani sull’opera di entrambi, vedi Fatti di Masolino e di Masaccio nella rivista La Critica d’Arte del 1940). I corpi dipinti diventano i corpi cinematografici: le immagini di Masaccio diventano le immagini pasoliniane. Si prosegue con Figura I. Il corpo epifanico, dove emerge quella “potenza rivelatrice del corpo nudo” – come lo stesso Pasolini la definisce in Teorema – . L’ispirazione sono i manieristi fiorentini, Pontormo in primis, come testimoniano i celebri tableaux vivants de La ricotta, in cui non a caso, il regista ha con sé sul set – celeberrimi gli scatti – il libro di Giuliano Briganti, La maniera italiana (1961). Entra qui in gioco anche Caravaggio e il caravaggismo, per la scelta di figure e modelli rappresentati con un esplicito realismo, crudo, provocante e irriverente. Nella sezione sono esposti il San Giovannino di Caravaggio della Galleria Corsini, due San Giovanni Battista di Valentin de Boulogne, uno proveniente dalla Chiesa di Santa Maria in Via di Camerino e uno appartenente alla collezione del museo, e la tela Cristo mostra la ferita dello Spadarino dal Perth Museum and Art Gallery.
Si continua con Figura II. Il corpo dello scandalo,dove protagonista è il motivo del crocifisso. L’immagine della croce riveste un ruolo ricorrente e centralissimo nella produzione di Pasolini regista, dall’omaggio esplicito e controverso de La ricotta fino all’immaginario esotico del Fiore delle Mille e una notte; assume valenze molteplici: religiose, simboliche, mitiche, antropologiche, non senza allusioni persino autobiografiche, che ne fanno una figura totemica universale. Il simbolismo della croce plasma perfino alcune poesie pasoliniane, ispirate ai cosiddetti carmina figurata, un altro esempio della contaminazione stilistica ed epocale, visiva e linguistica, perseguita da Pasolini. In questa sezione troviamo le Scene della Passione di Giovanni Baronzio e la Pietà e santi di Maarten van Heemskerck – tutte provenienti dalla collezione del museo – accanto al Cristo Crocifisso tra due ladroni di Giovan Battista Piazzetta dalle Gallerie dell’Accademia di Venezia e alla Pietà con san Paolo, san Giuseppe e le pie donne di Girolamo Romanino, in prestito dal Museo Diocesano di Brescia. Figura III. Il corpo del cordoglio è dedicata alle immagini della rappresentazione del lutto e dei suoi rituali, della sua espressione e manifestazione fisica e corporea. L’icona simbolica è quella della mater dolorosa della tradizione artistica europea e mediterranea, dall’Alto Medioevo al Barocco, così come l’immagine della Pietà. Qui l’ispirazione della tradizione artistica si riattualizza nei materiali visivi delle coeve ricerche antropologiche, come quelle di Ernesto De Martino.
Nella quarta sezione, Figura IV. Il corpo popolare, emerge la “corporeità popolare”, nelle sue provocatorie implicazioni antropologiche e sociali, ideologiche, economiche e ovviamente politiche. Di nuovo, gli accenti sublimi e tragici della rappresentazione pittorica dell’emarginazione e della povertà, precorrono gli interessi cinematografici di Pasolini, in particolare nell’ambito del realismo seicentesco di ispirazione caravaggesca. Troviamo qui i celebri Mangiatori di ricottadi Vincenzo Campi, in prestito dal museo di Lione, e – ovviamente – alcune sequenze del film quasi omonimo, La Ricotta. Ma anche la Vanitas di Angelo Caroselli, il Mendicante di un caravaggesco, I maccaronari di Micco Spadaro, la Contadina con canestro di Antonio Amorosi – accompagnate dalla Lavandaia di Giacomo Ceruti, in prestito dalla Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia. La mostra si conclude con Epilogo, Il corpo soggetto, dove al centro c’è il confronto con la complessa problematica della rappresentazione visiva come forma di potere, e delle sue implicazioni ideologiche ed etiche. Pasolini s’ispira al teatro spagnolo del Seicento e alla pittura di Velázquez, grazie, soprattutto, alla lettura che ne fa Michel Foucault, nel suo celebre saggio Le parole e le cose, anch’esso presente in mostra, nella bella edizione di Rizzoli (prima italiana) del 1967. A chiudere il percorso espositivo, anche Il nano del duca di Créqui, di François Duquesnoy e lo stupendo Narciso, attribuito a Caravaggio, entrambi della collezione del museo. I motivi barocchi, la finzione speculare, l’illusione stessa, sottendono per Pasolini, quasi sempre, la tentazione narcisistica.
A conclusione della mostra, la domanda che sorge spontanea è: in che forme e a quali condizioni un soggetto, può – ammesso che possa – diventare una figura? Forse Pasolini, anticipando da buon veggente molto di più di quello che avrebbe immaginato, lo è stato.