“With your feet on the air and your head on the ground”. Si possono prendere a prestito le parole dei Pixies per descrivere la sensazione che si prova soffermandosi in una delle stanze della mostra Otto Cieli di Oliviero Fiorenzi (Osimo, 1992) alla galleria bresciana The Address.
Il pavimento completamente azzurro, come un cielo terso, fa perdere completamente la percezione dello spazio e lascia il visitatore libero di volare sugli aquiloni che seguono le pareti. Si sente anche il vento. In quel luogo dalla base cerulea c’è racchiusa la sintesi del pensieri dell’artista, che si dipana poi nello spazio circostanze come un eco vibrante. Si avverte la vertigine del volo, ma si sta in equilibrio. Un gioco funambolico dato dalla perfetta assonanza tra le opere e la loro collocazione nello spazio in cui sembra che le trame del pavimento si alzino sulle pareti, e poi oltre. Interessante è notare come questo gioco sia sempre ascensionale, mai verso il collasso, ricordando il movimento dello sguardo dei bambini colti dallo stupore mentre giocano con le nuvole. Attento alle variabili presenti nel contesto in cui opera, Fiorenzi sviluppa la sua ricerca grafico-pittorica a partire dal suo vissuto personale dal quale sviluppa la sua mitologia personale: un alfabeto visivo in costante aggiornamento, strumento con il quale costruisce, a seconda del progetto, nuove architetture di significato. Negli spazi della galleria l’artista presenta otto aquiloni rappresentante ciascuno un capitolo del suo alfabeto simbolico e che corrisponde a un paesaggio, a un cielo. Anzi, otto cieli.
Mi interessa conoscere di cosa è composto il tuo alfabeto simbolico: quali sono i suoi segni principali e la chiave per codificarlo?
«È un alfabeto composto da immagini, simboliche e feconde. Tra le principali ci sono: il Fiore, la Tigre, la Luna, il Fuoco, le Mani, il Cavallo e il Cowboy. Queste per me sono immagini aperte. Le cerco nella mia infanzia e ogni volta che entro in contatto con loro, le riscopro in maniera nuova. Quella che sto costruendo è una Mitologia Individuale, un mio codice visivo che insegue quel sentimento di stupore legato alla scoperta e che è stato mio da bambino. Ritengo sia a quelle prime esperienze che dobbiamo la nostra immaginazione; ovvero a quelle scoperte fatte tra l’infanzia e l’adolescenza che hanno depositato nella nostra mente influssi simbolici permanenti e significativi. Il ricordo diventa quindi il mezzo attraverso il quale elaboro le immagini. Ogni immagine che reitero rappresenta la memoria di un evento, di una sensazione o di un sentimento che ho già vissuto andando a formare una cartografia della memoria. Sono immagini archetipiche e non mi interessa svelarne la precisa provenienza. Nonostante ciò, tutti sono capaci di leggerle ed interpretarle».
Osservando le tue opere intravedo molta curiosità, immaginazione, divertimento, libertà e mi piace immaginare un bambino che, immerso nella provincia italiana, costruisce dei mondi paralleli solo grazie alla sua fantasia e, all’interno della tua biografia, si fa proprio cenno agli anni dell’infanzia e dell’adolescenza come periodi chiave per la formazione del tuo metodo e della tua visione. In che modo hanno segnato il tuo percorso?
«Come ho spiegato, gli anni della mia infanzia hanno indubbiamente segnato la mia immaginazione. Ma la cosa più importante è che ho sempre disegnato; e da bambini disegnare è un gioco. Forse per questo motivo non ho mai smesso di giocare, e quindi non ho mai smesso di creare. E oggi come allora, quando creo cerco lo stesso stupore. Questo non significa avere un approccio infantile, significa cercare uno stato di estasi e di flow di fronte a ciò che accade nell’attimo. Più in generale è considerare l’opera come gioco, come costruzione d’esperienza e inscrizione del senso, per ritrovare sempre lo stupore in ciò che si dispone agli occhi. Il gioco, come lo definisce Johan Huizinga, è il momento in cui si esce dal puramente razionale per abbracciare lo spirituale, l’immaginario. L’Homo Ludens è l’umano che giocando costruisce un sistema effimero di relazioni tra sé e l’ambiente, che affida l’esecuzione e la comprensione del mondo al caso, all’intuito guidato dallo stupore. Si cerca così quella porta “magica” capace di mettere in contatto mondi diversi: coltivando l’incidente, il caso, l’imprevedibile, accogliendolo nel migliore dei modi, appunto, giocando».
Quando è nata la fascinazione per gli aquiloni?
«Gli aquiloni mi hanno sempre affascinato. Da anni lavoro con l’imprevedibilità degli spazi aperti. Pensare il vento come un motore, un motore poetico, lontano dal controllo dell’uomo, capace di spostare nel tempo anche le montagne, impossibile da imbrigliare, disposto solo a scorrere e a soffiare. L’aquilone concettualmente racchiude tutti i miei temi: la relazione tra l’opera e il contesto, il caso come attivatore, il supporto oggetto per il mio alfabeto visivo. Inoltre l’aquilone ha delle caratteristiche che lo rendono un soggetto perfetto per sviluppare un progetto di ricerca: forma, colore, elementi figurativi che si presta ad essere fotografato. E nella foto rientrano tutta una serie di altri fattori per me molto importanti: le condizioni atmosferiche, di luce e il contesto nel quale è inserito. In più l’aquilone per me è sempre stato un “gioco da grandi”, mi ricordo di mio zio Giorgio che al mare verso la fine dell’estate faceva volare il suo bellissimo aquilone, era grande e mi ricordo la difficoltà per farlo alzare. Questo accadeva un giorno solo, una volta all’anno. Era davvero un evento. Da bambini tutti abbiamo provato a far volare un aquilone rendendoci conto della difficoltà. Forse ho solo aspettato il momento giusto per far volare i miei aquiloni».
Osservando le opere in mostra si resta colpiti dal grande equilibrio cromatico. Quanto peso hanno i colori nella tua ricerca formale? Sono anch’essi simbolici?
«L’equilibrio cromatico in questo progetto è indubbiamente carico di un peso simbolico, ma non è ragionato. Il colore è la parte più spontanea della mia ricerca formale e la costruzione di senso arriva a posteriori. Solitamente i colori sono scelti di conseguenza ai soggetti scelti e in base a ciò che voglio comunicare».
Mi descrivi il titolo della mostra, Otto cieli? È un riferimento alla pluralità o il numero otto sottende anche ad altro?
«Otto è un numero carico di significati, per citarne alcuni, otto come simbolo dell’infinito, del riflesso dello spirito nel mondo creato, dell’incommensurabile e dell’indefinibile. L’otto è universalmente considerato il numero dell’equilibrio cosmico. Otto come sono gli otto venti nel mediterraneo. Ma il titolo OTTO CIELI, come otto aquiloni, sono otto parti di me. Ogni aquilone rappresenta un mio stato d’animo e ogni stato d’animo è rappresentato a sua volta da un immagine simbolica. Il Fuoco è la Contemplazione, Il Cavallo è Lo Stupore, le Mani sono La Ricerca e così via. Per fare le foto agli aquiloni, io e Matteo Natalucci abbiamo lavorato per mesi, io li facevo volare e lui li scattava. Durante queste giornate ho avuto una specie di rivelazione. Ogni aquilone è un’estensione di me, e nel momento in cui quel mio stato d’animo vola alto nel cielo, tenuto a terra solo da un filo, tutto lo spazio celeste davanti ai miei occhi si trasforma in uno spazio intimo, come una stanza. È un’esperienza forte, universale e al tempo stesso personale. Ho cercato un titolo che riuscisse a raccontare questo pensiero senza risultare troppo didascalico».
Se puoi, potresti accennare ai progetti ai quali stai lavorando?
«Ora sto lavorando al progetto editoriale (collaterale alla mostra) di OTTO CIELI un libro di novanta pagine stampato in risograph, stampa digitale, offset e serigrafia; edito da Press Press e prodotto da me, dalla galleria The Address e Nt Majocchi. Questo libro non è un catalogo e ha la stessa importanza della mostra, come due parti di un tutto. Nella mostra ho presentato gli otto aquiloni a parete, le otto fotografie e un cortometraggio anch’esso di otto minuti. Mentre il libro oltre ad essere la testimonianza del volo degli aquiloni con 24 foto di Matteo Natalucci, è un importante corpo di lavoro teorico curato da Piergiorgio Caserini il quale ha inoltre scritto la prefazione/introduzione. Per la pubblicazione Caserini ha pensato a un dialogo, a una connivenza di sguardi e suggestioni, che considerino il paesaggio, l’ambiente e il ruolo dell’abitare. Per i contributi testuali abbiamo quindi deciso di coinvolgere Franco Farinelli, Tiziana Villani, Cristiana Colli e Pippo Ciorra».
Prendo a prestito le parole di Piergiorgio Caserini scritte all’interno del curatorial text citato dall’artista: “Il lavoro di Oliviero tende a questo: ad aprirsi tanto, facendosi trasportare da uno sguardo o da un filo, finché qualche figura emerga dallo sfondo. Finché un turchese piatto non abbia tante screziature da divenire abitabile. Cercare insomma un’orientazione che non ha “carta” se non la sensibilità che le spinge, o la strada e i percorsi guidati da “ciò che chiama”.
Oliviero Fiorenzi. Otto Cieli
fino al 12 novembre
Galleria The Address, Brescia
info: theaddressgallery.com