In conversazione con Alessandra Ferrini, vincitrice del MAXXI BVLGARI Prize 2022

Attraverso un lavoro di ricerca ed espressione multimediale, Ferrini destruttura il linguaggio dei media, svelando la messa in scena dello spettacolo del potere

Il centro di partenza della pratica artistica della research-artist Alessandra Ferrini – vincitrice del MAXXI BVLGARI Prize 2022 – è lo studio, la ricerca d’archivio e l’unione di pratiche multidisciplinari e multimediali attraverso le quali creare nuove prospettive e riflessioni su una dimensione del reale che necessita riletture critiche illuminanti. Partendo da un processo di analisi del linguaggio dei mainstream media e sul modo in cui determinati eventi storici e politici vengono raccontati al vasto pubblico, l’artista analizza il ruolo che gioca l’informazione nella comprensione di eventi diplomatici apparentemente ordinari. In un processo lavoro di “dissezione” di notizie d’archivio, l’artista svela le ambivalenti e contradditorie modalità con cui determinati eventi politici vengono “messi in scena” come fossero vere e proprie performance. 
In particolare, con l’opera vincitrice Gaddafi in Rome: Notes for a Film, l’artista indaga gli archivi del quotidiano “La Repubblica”, analizzando informazioni testuali e iconografiche sulla prima visita ufficiale in Italia di Muammar Gheddafi nel 2009 e l’incontro con Silvio Berlusconi per la firma del Trattato di amicizia, partenariato e collaborazione tra Italia e Libia. L’obiettivo del progetto è di far luce sul trascurato legame fra la storia coloniale italiana e la realtà geopolitica contemporanea. La giuria internazionale del Premio ha infatti scelto il lavoro di Alessandra “per la sua capacità di rappresentare i fatti controversi della storia geo-politica contemporanea, sfidando le formule ufficiali e canonizzate delle narrazioni storiche e giornalistiche. In particolare, per la forza e l’equilibrio nell’analizzare i materiali documentari come fotografie, testi e film, ricomponendoli in una nuova narrazione, che riflette sul ruolo della ricerca come essenziale per una dichiarazione in difesa dei diritti umani e della cittadinanza globale nell’epoca post-coloniale”. L’artista compie il duplice lavoro di ricerca scientifica ed espressione creativa, producendo un nuovo sapere allo stesso tempo accademico-pedagogico ed estetico-esperienziale. Il suo modo di operare illumina la possibilità del nuovo ruolo di artista-ricercatore che possa apportare un diverso grado di responsabilizzare storica e sociale anche nella sfera della creatività e dell’arte. Di fatto, seppur vivendo all’estero ormai da molti anni l’artista decide di occuparsi di tematiche che riguardano l’Italia e le difficoltà che questo paese vive nell’affrontare l’ambiguità di un passato sempre più inevitabile. 
Come scrive la curatrice Giulia Ferracci nel catalogo di mostra: «Con questo lavoro Ferrini guarda ancora una volta alle complessità della contemporaneità attraverso la rilettura e l’estrapolazione delle vicende storiche dai loro contesti. Il tentativo è quello di riportare alla luce la verità storiografica sulla persistenza del colonialismo nel nostro presente e prendere parte a un processo di responsabilizzazione storica. Gaddafi in Rome: Notes for a Film può essere letto come una prova artistica volta a riflettere sul trauma coloniale e anticoloniale, per andare oltre e ragionare sul presente».

Alessandra Ferrini, Gaddafi in Rome: Notes for a Film, 2022. Credit Roberto Luigi Apa. Courtesy Fondazione MAXXI

All’insegna della riscoperta di fatti veritieri e narrazioni plausibili, nel tuo lavoro assistiamo a una dissezione della comunicazione mediatica di un evento storico molto preciso. Cosa ti ha portato a interessarti di studi sul post-colonialismo e le modalità in cui le narrazioni storiche vengono prodotte, costruite e poi effettivamente raccontate
Vivere a Londra come migrante ha sicuramente cambiato molto la mia prospettiva sul modo di intendere il mio posizionamento e la mia identità non solo a livello culturale ma anche su questioni come la classe sociale, le politiche di genere e il privilegio bianco. Ho iniziato a familiarizzare con la teoria postcoloniale e a esplorare le questioni legate a ciò che l’appartenenza nazionale significava per me mentre studiavo alla triennale (BA in Fine Art) e poi ho deciso di approfondire questo aspetto con un Master in Visual Culture, che mi ha fornito gli strumenti che oggi utilizzo nella mia pratica basata sulla ricerca.  È un modo di guardare alla visualità in modo ampio, come un dispositivo profondamente politico. Allo stesso tempo, il mio lavoro si confronta con il linguaggio, sia visivo che scritto, con le sue sfumature e i suoi usi strategici. Ho sempre lavorato con materiali trovati e d’archivio, quindi la storia e la storiografia sono state al centro della mia ricerca per molto tempo. Il mio interesse alla storia coloniale italiana è tuttavia avvenuto casualmente, grazie all’incontro con un amico che è dovuto fuggire dalla Libia nel 2012. Dico spesso che quell’incontro mi ha dato un senso di direzione e ha dato il via a un impegno che durerà tutta la vita per decostruire il mio modo di vedere, pensare e stare al mondo.

Come hai precedentemente affermato, il tuo lavoro Gaddafi in Rome: Notes for A Film, è diviso in tre atti, esattamente come un’opera drammaturgica. Quali sono questi tre atti e cosa ha stimolato la tua intuizione?
La ricerca intorno alla visita di Gheddafi a Roma nel 2009 si è concentrata da subito sulla performance della messa in scena politica da parte di Berlusconi e Gheddafi. Da qui, nasce l’idea di indagare questo evento attraverso il linguaggio drammaturgico per decostruirne lo “spettacolo di potere”. Due elementi mi hanno portata sulla strada della struttura a tre atti. In primo luogo, dopo aver visto che le notizie del quotidiano la Repubblica erano state archiviate separatamente durante i tre giorni in cui si è svolto l’evento, ho concepito queste notizie come tre copioni da trasformare in tre film connessi tra loro, ovvero tre atti. Successivamente, ho preso spunto da un brevissimo articolo di Chiara De Cesari, in cui si sottolinea come l’immagine che Gheddafi portava sul petto al suo arrivo a Roma, ovvero un’immagine di Omar al-Mukhtar – il leader della resistenza anticoloniale dopo la cattura da parte degli italiani – non sia stata riconosciuta dal pubblico italiano. In quanto tale, è stato il gesto di protesta di Gheddafi, la sua trasgressione del copione diplomatico, a creare indignazione in Italia, emarginando il messaggio che l’immagine sottintendeva: ovvero che la violenza coloniale non può essere cancellata nemmeno attraverso risarcimenti. Tutto questo mi ha portata a leggere questo evento come un “incidente incitante”, proprio come nella tradizione drammaturgica della struttura in tre atti. E anche i giorni successivi si adattano bene a questo schema: il secondo giorno è infatti costellato da proteste e scontri, mentre nel terzo ultimo giorno l’ordine viene ristabilito grazie agli accordi economici di Confindustria e l’intervento di politici dell’opposizione. L’evento viene dunque letto e presentato come l’interruzione di una celebrazione di “amicizia” diplomatica, trattandosi infatti della celebrazione della firma del Trattato di Amicizia, Partenariato e Cooperazione tra Italia e Libia. Il mio lavoro, il film, cerca di andare oltre questa facciata, oltre lo spettacolo orchestrato e la sua controversa interruzione.

Alessandra Ferrini, Gaddafi in Rome: Notes for a Film, 2022. Credit Roberto Luigi Apa. Courtesy Fondazione MAXXI

In un contesto mediatico sempre più ossessionato dal consumo sfrenato di informazioni e immagini, come si posiziona il tuo lavoro rispetto al modo in cui viviamo la nostra quotidianità? 
Sicuramente il mio lavoro è una riflessione su come la cronaca in presa diretta (live news reporting) sembri appiattire le informazioni, mettendo sullo stesso piano (di copertura e quindi di importanza) questioni banali e questioni di grande rilevanza storica e sociopolitica. Come vediamo nel primo atto, viene dato più spazio a ciò che Gheddafi e Berlusconi mangiano che ai reali contenuti degli Accordi Bilaterali sulla Migrazione che riguardano la vita di milioni di persone e che i due premier stavano firmando. In un certo senso, l’opera è un invito a scavare più a fondo, a contestualizzare, ma anche a riflettere ulteriormente su come viene usato il linguaggio in politica e nei media. Ci ricorda inoltre che quando si parla di politica estera e di passato coloniale, come cittadini italiani/europei, siamo tutti complici della violazione dei diritti umani. Le politiche imperiali plasmano la nostra realtà e la nostra classe politica, ed è nostra responsabilità allenarci a vedere attraverso queste forze strutturali, poiché le riproduciamo spesso senza rendercene conto. 

Da ricercatrice e artista italiana che vive a Londra da quasi vent’anni, come ti relazioni al contesto artistico contemporaneo in Italia e cosa significa per te vincere il MAXXI BVLGARI Prize oggi? 
Ho iniziato a sviluppare la mia pratica nel 2014-15, dopo una lunga pausa. È diventata una necessità a causa della ricerca che stavo conducendo sul passato coloniale italiano, sul mio posizionamento e sul retaggio del fascismo. La mia pratica è il risultato della mia ricerca e mi ha necessariamente riportata in Italia dopo oltre un decennio di completa lontananza. È diventata per me un’urgenza concentrarmi anche su progetti pedagogici che sviluppo insieme alle mie opere. Sono pienamente consapevole che la mia mancanza di consapevolezza del passato coloniale derivi da un fallimento del sistema educativo, ed è per questo che è fondamentale per me lavorare nelle scuole in Italia. Quindi, il mio lavoro si sviluppa innanzitutto per un pubblico italiano, con il quale desidero soprattutto condividere un modello autoriflessivo, un modo di pensare alla responsabilità individuale e sociale. In Italia e fuori (perché in molte siamo emigrate o perché anche altre persone non Italiane condividono simili lotte) attraverso la mia ricerca ho avuto la fortuna di costruirmi una rete di collegh3, amic3 e alleat3. Il mio lavoro esiste grazie a queste conversazioni e al sostegno reciproco che ci diamo. Per questo motivo aver ricevuto il MAXXI BVLGARI Prize è per me un incredibile riconoscimento non solo del mio lavoro, ma anche di questa rete estesa. Ma spero è anche un importante segnale sul fatto che la pratica basata sulla ricerca e su una presa di posizione politica in Itala è apprezzata, in un momento storico così delicato. Per questo sono ovviamente grata alla giuria e il team del MAXXI, Giulia Ferracci in primis, per aver sostenuto il mio lavoro. Spero che contribuisca a creare migliori opportunità per sostenere questo tipo di pratica, che richiede modelli diversi da quelli tradizionali: fare ricerca seria richiede molto tempo e un investimento nell’artista stesso e meno nell’opera/produzione, poiché necessita un’infrastruttura. Avere vinto una borsa di studio di dottorato practice-based nel Regno Unito mi ha permesso di sviluppare questo lavoro negli ultimi cinque anni, ma spesso mi chiedo come gli artisti in Italia possano riuscire a sviluppare una ricerca così a lungo termine. Spero quindi che si possa iniziare a discutere di questo aspetto, ma anche di come possiamo in questi sforzi, sostenersi a vicenda. 

*Alessandra Ferrini (Firenze, 1984) vive e lavora a Londra dove sta attualmente svolgendo un dottorato presso la University of the Arts con il progetto Gaddafi in Rome: Notes for a Film.

MAXXI BVLGARI Prize
fino al 20 novembre
MAXXI – Museo delle Arti del XXI secolo, Roma
Tutte le info: www.maxxi.art

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