Cosa accomuna un gruppo di 27 artisti internazionali e una struttura cinquecentesca napoletana? La Fondazione Made in Cloister è riuscita a trovare una risposta costruendo un interessante fil rouge attorno al concetto di interazione.

Con la mostra Interaction Napoli il curatore Demetrio Paparoni è riuscito a costruire una narrazione imperniata sul dialogo tra le opere presenti e lo spazio che le ospita, l’affascinante Chiostro di Santa Caterina a Formiello di Napoli, non lontano da Porta Capuana. Un luogo che ha fatto del melting pot sociale, culturale e politico il suo tratto distintivo e di cui la Fondazione è diventata oggi un’interprete accreditata. Molti artisti, infatti, hanno fatto interagire tra loro le opere presentate, sebbene partano da linguaggi lontani sia dal punto di vista formale sia concettuale.
Una distanza che si annulla nel complesso generale della mostra perché quello che vince è l’insieme, raggiunto grazie al movimento, al dinamismo, alla cooperazione e alla sintesi. Esattamente in coerenza con la mission portata avanti dalla Fondazione Made in Cloister, il cui Direttore Davide De Blasio tiene a precisare che è «l’obiettivo che noi cerchiamo di conseguire con ogni iniziativa della Fondazione. Tutti i nostri progetti si fondano su quell’idea di integrazione tra le diversità, di raggiungimento di un equilibrio, sempre attraverso l’intermediazione dell’universalità dell’arte contemporanea».

Perché la Fondazione attraverso la proposta culturale assolve a una funzione che non sarebbe sbagliato definire anche antropologica. Si propone, cioè, di essere un driver di ascolto e stimolo per tutta la comunità urbana dell’area circostante, il caratteristico e storico quartiere napoletano di Porta Capuana, un territorio ricco di diversità ma anche di tradizioni artigiane e creative. Insomma, quello che avviene all’interno del Chiostro e che si propaga al di fuori di esso, sottoforma di suggestione e proposta, rappresenta un autentico modello di inclusione sociale, la cui parola chiave è proprio “interazione”.
E per costruirlo De Blasio spiega che si è deciso di partire proprio dal genius loci. In questo caso un chiostro cinquecentesco, che la Fondazione, dopo il suo insediamento, ha voluto ristrutturare in senso “filologico”, recuperando cioè la struttura originaria.
Il risultato è stato la creazione di uno spazio che infonde in chi vi entra una particolare energia. De Blasio ci racconta che per molti artisti invitati per la mostra il primo impatto con la struttura ha innescato un forte esercizio di libertà da ogni condizionamento, il che ha permesso loro di lavorare bene proponendo qualcosa di nuovo e inedito. Con la conseguenza che in molti casi si è stabilito un rapporto molto empatico tra artisti e location: «Alcuni di loro – ci svela De Blasio – una volta qui hanno fatto fatica ad andarsene. Penso a Marco Neri e Nicola Samorì che dopo aver montato le loro opere, in poco tempo, sono voluti rimanere un’intera settimana, oppure a Peter Alley, che è rimasto vari giorni per godersi la mostra e il contesto in cui l’avevamo allestita».

Quello in atto nei pressi di Porta Capuana, di cui la Fondazione Made in Cloister è diventata la principale interprete, di fatto, è un processo, fatto bene, di rigenerazione urbana, che punta alla rinascita di un territorio partendo dalla sua comunità, dalle sue specificità, dalla sua vocazione e dalla sua identità, tenendo alla larga ogni forma di speculazione. «Stiamo lavorando a un progetto urbanistico molto ambizioso – spiega De Blasio – per cercare di riportare nei centri storici le piccole fabbriche, gli artigiani, la filiera produttiva che una volta era l’anima di zone come questa. Vogliamo ricreare un’economia di prossimità in questo quartiere per rivitalizzare, dandole una nuova prospettiva, quest’area di Napoli». Questo è il grande progetto di lungo termine che la Fondazione sta seguendo e per il quale ha avviato anche già una serie di momenti di dialogo tra cittadini e istituzioni.
Del resto il momento è quello giusto. Napoli, come conferma De Blasio, sta vivendo un momento di grande vitalità culturale, forse anche in risposta alla chiusura fisica e mentale a cui la pandemia ha costretto. Ma la città sta rispondendo liberando grandi energie e rievocando la sua tradizionale attitudine, quella dell’apertura nei confronti dell’arte in tutte le sue forme. «Napoli è sempre stata molto attratta dai fenomeni culturali. Nel recente passato, poi, grazie allo straordinario lavoro, tra gli altri, di Lucio Amelio, ci siamo resi conto che abbiamo anche una grande sensibilità contemporanea».
Rigenerare attraverso il dialogo, servendosi dell’arte contemporanea come linguaggio di inclusione. Questo è il metodo che la Fondazione sta consolidando e con promettenti risultati. Basti pensare alle prossime mostre, che De Blasio ci anticipa: «Ospiteremo Rafael Megal per una personale, un artista armeno già presente in questa collettiva. E poi Ara Starck, figlia di Philippe il grande architetto. Lei non ha seguito le orme del padre ma è una raffinata artista visiva. Sarà molto interessante. Fino al 2024 ci aspettano importanti sfide e progetti».

LA MOSTRA:
La mostra Interaction Napoli 2022 è la prima edizione di una rassegna che si riproporrà ogni due anni. È concepita come il risultato dell’interazione tra le opere di 27 artisti internazionali. Gli artisti coinvolti sono Laurie Anderson, Ljubodrag Andric, John Armleder, Paolo Bini, Maurizio Cattelan, Frederik De Wilde, Sergio Fermariello, Giovanni Frangi, Georg Oskar Giannakoudakis, Peter Halley, Gottfried Helnwein, Paolo Iacchetti, Ruprecht von Kaufmann, Liu Jianhua, Iva Lulashi, Jason Martin, Rafael Megall, Marco Neri, Mimmo Paladino, Nicola Samorì, Vibeke Slyngstad, Natee Utarit, Joana Vasconcelos, Ronald Ventura, Nicola Verlato, Serena Vestrucci e Wang Guangyi. La mostra è visibile fino al 23 settembre.