La fenomenologia quotidiana nell’arte di Mattia Pajè

L’opera sull’orlo della scoperta: tra esplorazione dello spazio, autoformazione e condivisione

DA INSIDEART #122
L’opera sull’orlo della scoperta: tra esplorazione dello spazio, autoformazione e condivisione

Per Mattia Pajè l’opera nasce da un processo archeologico che inizia nella fenomenologia quotidiana dell’artista stesso (episodi e avvenimenti della vita di tutti i giorni coniugati alle esigenze dettate da quella lavorativa) continua nella sua realizzazione ideale, e finisce con la scoperta dell’opera d’arte. Quasi attraverso un processo creativo inverso è l’opera stessa a trovare l’artista manifestandosi dopo avergli anticipato la sua venuta attraverso una serie di segnali.

Dettagli a volte casuali e semplici. «Attraverso – ammette l’artista – un’operazione che definirei di speleologia architettonica coniugata allo studio, mi capita che vengano fuori spunti interessanti. Per questo i sopralluoghi sono fondamentali perché sono mo- menti in cui nasce l’opera. Arrivano delle sensazioni, dei segnali esterni, delle immagini di cui poi in un secondo momento riconosco ufficialmente la validità. Anche per questo – continua – il mio lavoro è molto eterogeneo. Io sono lo scopritore del mio lavoro.

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Ciao, 2019, courtesy Fondazione Smart-polo per l’arte, photo Francesco Basileo

Ora, dopo qualche anno, riesco a riconoscere delle cose che fanno parte di me.A uno sguardo meno interno potrebbe sembrare che tutto sia diversificato perché risponde a situazioni diverse». Come se le opere fossero in attesa di essere raggiunte, la metodologia di Pajè è strettamente collegata al rapporto che l’artista ha con lo spazio, fortemente segnato da un curioso episodio che l’autore individua come il più importante per la nascita della sua personale relazione con il senso del luogo: «Il mio approccio con lo spazio – racconta – è iniziato con la consapevolezza di dovermi costruire un rifugio. Durante un soggiorno nel sud della Spagna, anni fa, mi capitò di arriva- re in una spiaggia incontaminata dove allora abitava la comunità hippie della zona e dove era quindi possibile vivere costruendosi il proprio rifugio.Arrivato, iniziai un’esplorazione del paesaggio molto attenta cercando di estrapolare gli elementi necessari per costruire il mio spazio. Da allora ogni volta che mi approccio a una nuova mostra applico lo stesso metodo di visione: un’esplorazione profonda che si snoda su più piani. Dalle planimetrie giungo fino alle strutture e agli oggetti in esse contenute, così fino a tutte le pieghe dell’architettura». L’importanza dell’incontro è alla base della poetica di Pajè.

Non solo preannunciato da segnali che, come piccole voci, gli sussurrano di seguire le tracce che l’intuito suggerisce ma talvolta anche segnato dal caso che ne facilita la scoperta. «Non dico di credere nel caso – dice Pajè – o al destino ma credo agli incontri. Quando si verificano per me è sempre motivo di gran- de stupore e felicità perché raggiungo sicurezza su quello che sto facendo. Noto fenomeni particolari che mi fanno capire che quella è la strada giusta, lì sta il punto». Tuttavia questa è solo una parte della ricerca dell’artista. Oltre alla dimensione installativa, infatti, c’è il lavoro intimo e personale della ricerca in studio in cui l’esplorazione dell’esterno viene meno e al suo posto compare l’emotività. «Il lavoro che conduco in studio – spiega – si concentra tutto su un’emotività privata.Tendo sempre a separare la ricerca verso l’esterno da quella più personale ed emotiva. Il disegno è qualcosa che potrebbe collegarle anche se è molto difficile che utilizzi un disegno precedente all’interno di un progetto ex-novo. Disegnare però è una pratica che porto avanti tanto e da sempre».

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Incantesimo con barchetta nella foresta, 2020

Parte ulteriore del lavoro di Pajè ricade invece sulla produzione collettiva o condivisa finalizzata all’autoformazione in cui sono presenti diversi progetti tra cui uno spazio indipendente, Gelateria sogni di ghiaccio che Pajè gestisce a Bologna dal 2016 per offrire la possibilità ad altri artisti di ospitare le proprie mostre. «Si tratta – specifica – di un artist-run space in cui ho investito molta energia e in cui credo molto. È parte integrante della mia formazione.Alla sua nascita l’ho gesti- to con alcuni colleghi poi più autonomamente».

Il lavoro condiviso e l’autoformazione consentono il connubio tra lo sviluppo artistico personale e quello collettivo umano e professionale. Sia per l’opera che per il suo fautore si realizza ancora una volta la magia dell’incontro. Questa volta avviene però su duplice livello poiché il processo di elaborazione creativa viaggia parallelo con il confronto con l’altro, al centro dell’attenzione di Pajè anche nello sguardo che l’artista rivolge al pubblico. «Mi interessano – conclude – quelle situazioni in cui il pubblico è costretto a fare delle cose per fruire del lavoro. Non nel senso partecipativo più semplice; mi piace creare una sorta di ostacolo alla piena fruizione attraverso una situazione. Sta poi al pubblico capire se affrontarla o no. Come ad esempio in Hoodie. L’idea era creare un’opera indomabile che mi permettesse di avere come ostacolo fisico tra pubblico e opera la persona che indossava la felpa. L’opera era parzialmente visibile e parzialmente non visibile, a meno che lo spettatore non avesse voluto compiere lo sforzo necessario per l’approccio diretto con quella persona».

Mattia Pajè è in mostra con Fuori Terra a Palazzo Vizzani, sede dell’associazione Alchemilla a Bologna, dal 12 maggio al 12 giugno 2022

Info: http://mattiapaje.com/index.php/about/bio/


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