Got my mojo Workin’: gli incantesimi di Betye Saar all’ICA di Miami

Fra tecnologia e vudou, in mostra a Miami le installazioni immersive della celebre icona della Black Art

L’Istituto di Arte Contemporanea di Miami (ICA) espone artisti locali e poco riconosciuti con accesso libero e gratuito tutto l’anno. Tra gli emergenti, ci sono tuttavia anche superstar internazionali. Tra loro, l’afroamericana Betye Saar occupa questo mese l’intero secondo piano con le sue più radicali installazioni immersive del periodo 1980-1998, raramente o mai esibite prima.

PH. Marco Guglielmi

Betye è una icona della Black Art degli anni 70, celebre per i suoi lavori politici in cui i miti e stereotipi sulla razza e la femminilità sono incorporati in assemblaggi di manufatti della cultura pop americana. Insegne pubblicitarie, soprammobili, giocattoli e oggetti di consumo raccontano il rifiuto dell’imperialismo estetico dominante che porta alla feticizzazione ed erotizzazione del corpo femminile.

Sebbene si consideri una femminista, Saar evita di riferirsi alle sue opere in quanto tali, preferendo enfatizzare gli elementi di interculturalità e spiritualità. I suoi viaggi di ricerca ad Haiti, in Messico e Nigeria la conducono negli anni a creare ampie installazioni site-specific in cui feticci sciamanici e feticci tecnologici si combinano in una nuova dimensione mistica. Ed è in questa prospettiva che la mostra all’ICA propone i suoi lavori forse meno conosciuti, che esplorano la relazione tra tecnologia e spiritualità, e la necessità di un’alleanza di entrambi.

Creato durante una residenza artistica al celebre MIT in Massachussets, Mojotech (1987) è ispirato a una canzone blues, il cui ritornello scorre minaccioso su un display «Userò il mio mojo, e lo farò su di te». Il mojo è un amuleto o incantesimo vodou; ma anche le nuove tecnologie gettano incantesimi su di noi. Nei suoi lavori, Betye raccoglie ciondoli, ossa, candele votive insieme a circuiti di computer, cavi, bobine di rame a sottolineare un parallelo tra antiche e nuove superstizioni, tra fede animistica e scientifica.
In House of Fortune (1988), le rune nordiche decorano quattro sedie attorno a un tavolo, sul quale le impronte di mani evocano una seduta spiritica. Quattro stendardi in seta rappresentano gli elementi dell’universo; altri lavori in carta riciclata mostrano una cosmologia mistica di cuori, ventagli, dadi e fulmini. A terra, un tappeto di foglie di palma disseccate è punteggiato di carte dei tarocchi.

PH. Marco Guglielmi

Nella sala accanto, una scultura antropomorfa in metallo (The trickster, 1994) adorna di pugnali e catene si erge sullo sfondo di reti mimetiche e luci al neon. Il trickster nell’animismo è un intermediario tra gli umani e gli dei; quello di Saar ha attributi femminili, e custodisce la soglia verso cui si ergono le mani che sbucano dalla corteccia sparsa sul terreno.

Più avanti, sullo sfondo di una antica mappa astrologica in seta (Celestial universe, 1988), una canoa riempita di carbone scivola nell’oscurità. In luogo di onde, una incisione a stampa del 1788 raffigura il Brooks, una nave negriera britannica di rotta tra l’Africa e i Caraibi. Dalla canoa, mani nere in ceramica si protendono al cielo come un urlo silenzioso, a denunciare l’incubo del viaggio e la brutalità del trattamento (Gliding into midnight, 2019). Fuori, isolato su un piedistallo, un vestito da sposa fluttua spettrale mentre le navi negriere ne rincorrono la scia (Brides of bondage, 1998). Orrore e inumanità non sono mai stati dipinti in modo cosi poetico e leggiadro.

ICA, Miami
28 ottobre 2021 – 17 Aprile 2022