Con Porta Portese, mostra a cura di Gaia Bobò, si chiude il ciclo espositivo del 2021 di Spaziomensa, l’artist-run space romano che nel suo primo anno di attività attraversato anche dalle difficoltà dovute alla pandemia, ha dimostrato quanto vivo e presente sia lo spirito della ricerca artistica romana. Porta Portese nasce da una suggestione curatoriale della stessa Gaia Bobò e si articola in più sezioni espositive.
La prima è dedicata alla prsentazione di artisti emergenti e affermati del panorama internazionale quali: Tomaso Binga, Lucia Cristiani, Auriea Harvey, Jonas Lund, Giulia Mangoni, Meletios Meletiou, Diego Miguel Mirabella, Jacopo Rinaldi, Agnese Spolverini, The Cool Couple, Elo Vega, Alessandro Vizzini e Benyamin Zolfaghari.
Vi è poi una sezione dedicata ai linguaggi editoriali, della stampa e del libro d’artista in cui ritroviamo Alessia Armeni, Georges De Canino, Quentin Lefranc, Lucia Marcucci, Lamberto Pignotti e Sergio Sarra (in collaborazione con Emilio Prini), ma anche realtà che a diverso titolo si occupano di creazione, collezionismo e archiviazione come la Litografia Bulla, la Collezione Giuseppe Garrera e lo Studio Bibliografico Marini.
L’ultima sezione invece riguarda il lavoro de Gli Impresari che al suo interno raccoglie i contributi di circa quaranta artisti. Tale percorso, in tutte le sue articolazioni è raccontato in una pubblicazione edita da DITO Publishing.
Abbiamo chiesto proprio alla curatrice Gaia Bobò di spiegare gli intenti e le visioni alla base di questo interessante progetto.
Partirei da una riflessione mutuata dal comunicato stampa. Mi interessa molto la dimensione dei luoghi dell’arte come spazi effimeri che acquistano senso e valore a partire dalle pratiche che li animano. Ne approfitto per chiederti di condividere le tue riflessioni su Spaziomensa e sul traguardo appena raggiunto con questa mostra che chiude la prima stagione di attività di questo luogo.
«Come giustamente dici, si può davvero parlare di un traguardo. Spaziomensa è un’esperienza che ha avuto un’accoglienza calorosissima da parte della città di Roma e che dal mio punto di vista ha aperto a moltissimi spunti di riflessione su cosa veramente voglia dire contribuire alla scena culturale di una città. Primo fra tutti, è stata la dimostrazione di come sia fondamentare avere un luogo di sperimentazione e ricerca per dare sostanza ai progetti e farli esistere, grazie al fondamentale momento dell’interazione con il pubblico. Questo anno è stato veramente intenso, e tutti abbiamo dedicato tempo ed energie per realizzare questa visione. Sono stati prodotti oltre venti progetti espositivi in collaborazione con artisti, curatori, editori e interlocutori del mondo dell’arte a vario titolo. Abbiamo tentato di dimostrare, contrariamente a quanto spesso è affermato, che Roma non è un luogo povero di sostanza, piuttosto di adeguati strumenti di valorizzazione, non privo di artisti, ma di un giusto sguardo verso gli stessi, non povero di linguaggio, piuttosto con un linguaggio proprio che richiede di essere interpretato».
Porta Portese rappresenta un luogo di culto dell’esperienza romana, non solo per il mondo dell’arte ma sicuramente, come dimostra la tua mostra, è un luogo dove spesso l’arte transita, anche inconsapevolmente. Cosa ti affascinava dello storico mercato romano?
«Ormai da qualche anno rivolgo la mia ricerca curatoriale verso le manifestazioni culturali effimere, che spesso sintetizzo con il termine di “patrimonio immateriale”, tentando di scrollare da questo termine un’accezione eccessivamente rigida o accademica. Mi interessa rileggere gli avvenimenti che fanno parte dell’esperienza quotidiana del mondo come rituali collettivi, espressioni di una vena irrazionale e misterica e complesso strutturato di interazione tra gli individui al fine di rintracciare la loro universalità, da un lato, e la loro capacità di esprimere le sfumature di un preciso contesto sociale, dall’altro. Per me Porta Portese è esattamente questo: uno spazio culturale dove transitano individui, immagini, racconti, culture e oggetti. È l’esperienza di un luogo fisico che posso attraversare con il mio corpo e che tuttavia mi consente di incontrare, nella stessa finestra percettiva e in un lasso ristretto di tempo, diverse geografie e diverse temporalità. Mi interessa inoltre la ciclicità del mercato come prassi performata, partecipata in vena di una sua forza magnetica, co-partecipazione alla creazione in un cerchio magico contraddistinto dalle sue logiche e dinamiche».
La tua selezione di artisti è insolita ed eterogenea, cosa ha guidato le tue scelte?
«È importante dire in questo senso che, non trattandosi di una mostra tematica né di una ricognizione scientifica su un tema, la griglia curatoriale è stata progettata appositamente per divenire un terreno di libertà, creare le regole di un gioco anziché limitare a princìpi già predefiniti. Posso dire che sicuramente ognuno degli artisti coinvolti offre una suggestione o una chiave di lettura significativa rispetto alla suggestione di partenza: dal concetto di archivio collettivo alla ricerca sulle forme e criticità dello spazio pubblico, dalle implicazioni del mercato nella società contemporanea allo sviluppo dei mezzi di trasmissione e diffusione delle immagini e così via. Inevitabilmente, molti degli artisti operano nel contesto romano, pur appartenendo a generazioni e circuiti differenti, ma allo stesso tempo molti sono portatori di culture e geografie diverse, che di fatto sono esplorabili nella mostra stessa. Laddove ho percepito che un artista potesse contribuire in modo davvero significativo al progetto di mostra, mi sono spinta oltre i confini nazionali con lo scopo soprattutto di portare verso un grado di universalità le riflessioni messe in gioco, trasportandole verso una dimensione gassosa».
Parliamo un attimo della dimensione editoriale, su cui da tempo conduci una riflessione che culmina proprio in questa mostra. Quali sono gli elementi contraddistintivi di questa ricerca?
«Il processo di cui parli nel contesto di Spaziomensa origina con il progetto Magnete, che ho curato invitando realtà editoriali indipendenti a partecipare formalizzando la loro ricerca nello spazio fisico della nostra project room. Guardando ancora più indietro, la scelta origina sicuramente da una mia passione verso il linguaggio editoriale una genuina curiosità sui processi di spazializzazione dell’esperienza della “pagina”. Si è trattato di un format che ho visto evolversi e maturare nel tempo, e che forse si svilupperà in seguito mutando la sua natura. La sezione Printed Matter della mostra, come giustamente osservi, è espressione della medesima curiosità, stavolta tradotta grazie alla scelta di focalizzarmi non più unicamente verso le realtà editoriali, ma verso gli artisti che lavorano con questo linguaggio e verso altri protagonisti della cultura editoriale: la Litografia Bulla, la Collezione Giuseppe Garrera e lo Studio Bibliografico Marini. Mi interessa la fragilità e la memoria effimera della carta, il suo essere documento e portatore di memoria della storia dell’arte, del design e delle arti applicate».
La mostra fa anche riferimento al concetto di archivio, reso oggi più complesso a causa della necessità di ricondurre agli archivi anche il patrimonio immateriale e digitale. Qual è il tuo punto di vista su questo aspetto?
«Parto dicendo che il concetto di patrimonio immateriale e quello di archivio sono due facce della stessa medaglia, nel senso che le manifestazioni intangibili, per compiersi, necessitano necessariamente di una forza vitale che attivi. Sembra banale, ma la mancanza di questa prerogativa mette immediatamente in gioco l’idea di archivio come tentativo, in fondo utopico, di arginare gli effetti della scomparsa. L’ambito digitale è in questo senso un terreno più che fertile da esplorare, e che offra possibilità concrete di trasmissione della memoria che mezzi più tradizionali non possono per loro natura fornire. Credo anche che il ruolo degli artisti in questo senso sia una risorsa tutta da esplorare: sempre più artisti si interessano alle dinamiche delle culture popolari ponendosi a loro volta come memoria vivente di queste pratiche, come in diversi casi è espresso anche nella mostra. Detto ciò, al netto di queste considerazioni più lineari, mi interessa anche l’idea di mercato come archivio o database momentaneo ed effimero, che in un determinato spazio e tempo si mette a disposizione degli individui per essere sfogliato, e dopo allora muta la sua conformazione in seguito al momento della dispersione».
Una domanda sul futuro, a cosa stai lavorando e cosa ci dobbiamo aspettare dalle tue prossime attività?
«Sicuramente continuerò ad approfondire la ricerca su questi temi, lavorando a nuovi progetti in questo senso. Parallelamente, proseguo la mia attività curatoriale: a gennaio inaugurerà una doppia personale di Lucia Marcucci e Angela Washko nella Gallery of Arts della Temple University in Rome, che mette a sistema due diverse esperienze di interazione tra ricerca femminista ed evoluzione dei mezzi di diffusione di massa. Sto lavorando inoltre a un mio podcast per la serie Pillow Talks e ad una monografia che mi impegnerà per i primi mesi del 2022. Collaboro poi continuativamente con gli artisti che stimo, è in corso una mostra di Benyamin Zolfaghari originata da un nostro dialogo, mentre sto collaborando con Meletios Meletiou per la sua prossima personale presso gli spazi del Pastificio Cerere e con l’artista Agnieszka Mastalerz per una presentazione del suo lavoro a Roma».
Fino al 18 dicembre 2021