Lo chiamano artist run space, ed è lo spazio indipendente per eccellenza a Roma, Spaziomensa, che nel giro di meno di un anno ha acquisito notorietà e importanza, al punto da diventare di tendenza. Fa sorridere alcuni il fatto che gli artisti siano riusciti nella mission impossible di consacrare un luogo tutt’altro che sacro, anzi. Un tempio profano, in un contesto urbano che definire periferico è un eufemismo, perché l’ex cartiera in cui sorge, oggi conosciuta come City Lab, è sperduta nella zona extra urbana della Salaria, tra l’aeroporto dell’Urbe e il piccolo distretto industriale di Settebagni, un non-luogo frequentato da signorine dedite al mestiere più antico del mondo e dai loro avventori, da auto che sfrecciano veloci e da camion di passaggio, e dove il suono dominante è quello dell’asfalto graffiato dal vento. Eppure non c’è da meravigliarsi se l’arte ancora una volta è riuscita a insediarsi e ad attecchire in un posto così e a generare bellezza. Spaziomensa è un fortino dove albergano creatività, sperimentazione all’ennesima potenza e ricerca e proprio per questo è riuscito ad annullare le distanze sociali, geografiche e antropologiche tra questo non-luogo e i luoghi più conosciuti e blasonati della città. Un autentico baluardo di resistenza al luogo comune. E proprio per questo è diventato subito così cool, un posto ospitale e anarchico, un must do per tutti quelli che, almeno per qualche minuto della loro giornata, vogliono assaggiare il vero sapore della libertà. Quello di Spaziomensa, da questo punto di vista, è una sorta di esperimento urbanistico ben riuscito. Un’orchidea fiorita in un campo di gramigna.
L’idea è stata di un gruppo di artisti, Sebastiano Bottaro, Dario Carratta, Marco Eusepi, Alessandro Giannì e Andrea Polichetti, che gestiscono Spaziomensa ospitando altri artisti e creativi per allestire lì il proprio studio e invitandone altri per dare vita a interessanti mostre. Mostre in cui la disponibilità degli spazi e la loro multifunzionalità favoriscono la sperimentazione più estrema.
L’ultima mostra organizzata è stata Looper, un dialogo a due tra Sonia Andresano e Sebastiano Bottaro. Una mostra che meglio di qualsiasi descrizione, rende bene il concept di Spaziomensa.
SONIA ANDRESANO
Ritenta, sarai più fortunata è l’installazione che Sonia Andresano ha organizzato per la mostra. Un’installazione complessa, ma poetica: un grande schermo che proietta in loop le immagini di una ballerina impegnata in un esercizio impossibile: fare una verticale su un divano imbottito. Ci prova e ci riprova, ma il suo equilibrio è precario, quindi non riesce, se non per pochi istanti. Poi cade. L’esercizio diventa quindi compulsivo, una questione di principio. Si percepisce l’abnegazione dell’atleta, la sua volontà di resistenza alle leggi della fisica. Più va avanti, più il suo atto assume un significato quasi “rivoluzionario”. Il suo scopo è trovare un punto di equilibrio. Un equilibrio che costituisce lo straordinario, lo stato di eccezione, perché, appena “toccato”, è subito perso. Un batter d’occhio, un attimo fulmineo, che dura giusto il tempo di una fiammata, una contrazione del respiro. Un istante impossibile da prevedere, in cui si manifesta il Caso nella sua purezza. E proprio per questa sua straordinarietà, l’atto è amplificato dal resto dell’installazione: una serie di monitor scolpiti in gesso dove sono proiettati, in loop, alcuni dettagli della performance. Il tutto avviene in un contesto assordante, il sound della Salaria, sparato dalle casse.
“Quello di Sonia Andresano – scrive Giuseppe Armogida – è l’ennesimo tentativo di trovare un’immagine in grado di restituire l’impossibilità dello stare fermi; l’insoddisfazione, l’agitazione, l’inguaribile irrequietezza che abitano ogni sosta; il logorio che corrode internamente ogni stabilità e che sradica da ogni sicurezza; il procedere per tentativi reiterati – una forma di resistenza – alla ricerca di una verticalità, di un’emersione, di una forza ascensionale, ma, allo stesso tempo, la possibilità dell’errore, della perdita del punto d’appoggio, del precipizio, della caduta, del fallimento e, dunque, della delusione, che caratterizza ogni nostro rischio. E lo fa costringendo lo spettatore ad un ping-pong visivo ed emotivo, non solo tra lo spazio in cui si trova e si muove e quello inaccessibile del video, ma anche tra le diverse inquadrature. Uno sguardo-desiderio, che, fra continui rimandi, confronti e inceppi, sbatte da un luogo all’altro, da un punto di vista all’altro, e si riavvolge, in un loop infinito”.
SEBASTIANO BOTTARO
Il “padrone di casa” il suo loop l’ha creato su tela. Chiaramente è più interiore e meno lampante, ma non meno affascinante e coinvolgente. Il bello della pittura di Bottaro è che non cerca consenso, è esattamente una proiezione del pensiero dell’artista, l’osservatore è invitato a entrarci, ma non a orientarcisi, il suo spirito di adattamento nell’opera fa parte della componente performativa del quadro.
Come scrive Gaia Bobò “Come aggregazioni di nuvole elettriche, i segni di Sebastiano Bottaro si dislocano sul campo della tela scaricando flussi di corrente continui, dando vita a un processo che si sostanzia nella ricerca dell’instabilità stessa, nel loop di un reiterato cortocircuito. Una componente rituale e performativa percorre il corpus dell’artista mediante la messa in atto di uno schema ripetitivo ossessivo, espresso nella struttura lineare che segmenta e scansiona l’orizzonte del dipinto. Queste parallele in sottofondo echeggiano come un rumore bianco, racconto sussurrato di un’impresa che trapassa i confini del dipinto e si estende su binari immaginari indefiniti. Un tracciato caldo, ruvido, quasi un elettrocardiogramma che trattiene le mutazioni infinitesimali del sentire, l’affanno, la vibrazione dei polsi, alludendo sempre intimamente alla presenza del corpo e alla sua trasformazione”.
“Le esplosioni cromatiche gestuali in primo piano – continua Bobò – sono variazioni su tema di un processo pittorico in divenire, masse che emergono ora come tracciati e indizi discreti, ora prendendo il sopravvento sul giacimento che le accoglie, oscurandolo quasi completamente. L’incursione pittorica si innesta sulla griglia lineare quasi alla pari di una scrittura pentagrammatica, accedendo a un sistema codificato in cui la collocazione del segno assume eguale valore del segno stesso, poiché solo in funzione di essa le frequenze si fanno più stridule, acide, gravi, dolci, profonde, come in una partitura musicale di volta in volta sconvolta da diversi suoni e silenzi”.
La programmazione di Spaziomensa adesso prosegue con la mostra Cose Viste di Marco Eusepi e Sergio Sarra, fino al 29 giugno.
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