Atelier#3 Mattia Morelli

Roma

Mattia Morelli è un fotografo che invita a reinterpretare e sublimare la realtà, perché spesso l’occhio umano è tanto abulico da non scorgere più ciò che lo circonda. Le sue poliedriche creazioni sono trasfigurazioni poetiche di elementi considerati dai più insignificanti o angosciosi.

Mattia, com’è avere un proprio atelier?
«È cambiato molto, prima lavoravo in casa. Il confronto con altri artisti, provenienti tra l’altro da ambiti vari, è la crescita maggiore, e uno spazio così ampio consente di sperimentare moltissimo».

Dopo la triennale in pittura all’Accademia, per il biennio hai scelto la fotografia. Come si è rivelato il mezzo più eloquente per la tua espressività?
«La macchina fotografica è uno strumento che agevola la produzione: non meno complesso della pittura, ma più accessibile, ha tempi più brevi di realizzazione, ma non per questo di progettazione. È chiaro comunque che la mia fotografia è vicina alla pittura: i tecnicismi mi importano relativamente, le fotografie hanno forte carica concettuale e i progetti hanno un approccio pittorico per colori e per le forme astratte, sebbene io ricerchi spesso e volentieri il figurativo».

Qual è il tuo messaggio?
«Un’evasione dalla realtà così come appare semplicemente ai nostri occhi. Con i miei scatti cerco di offrire un’alternativa, reinterpretata e reinventata, resa armonica e piacevole, esito di analisi lunghe dovute a ricerche pazienti possibilmente vicine alla natura. Ad esempio, nel progetto Ladies and Gentlemen ho riconosciuto profili di volti umani nelle crepe dei muri formatesi dal distacco casuale dell’intonaco dalle pareti stesse, ogni personaggio rilevato è accompagnato da una storiella. In Landscapes, invece, ho fotografato foglie di fico d’India secche e deteriorate, che, decontestualizzate, ho reso in nuove identità geografiche, così come in Places usando ruvidi e porosi ossi di seppia modellati da agenti atmosferici e dalle acque. Affascinato, entro nella materia così stratificata, per creare universi alternativi in cui l’uomo è spesso assente». 

Il cimitero degli insetti, a Fondamenta, è stato allestito su ”lastre leggere che si lanciano dal soffitto fino a terra”. Perché questa scelta?
«Il progetto nasce in un edificio bolognese. Percorrevo le rampe delle scale quando ho notato che ai miei fianchi c’erano due grandi vetrate con doppio vetro al cui interno giaceva un’impressionante quantità di insetti privi di vita. La visione era tanto scioccante quanto delicata. Le ”lastre leggere” a Fondamenta restituiscono l’impatto delle alte e luminose vetrate e la texture variopinta e cristallina rimanda alla purezza del vetro e all’esoscheletro degli insetti. Inoltre, l’installazione è composta da due piccole fotografie poste sotto resina. Così come l’insetto in natura grazie all’ambra è preservato dalla decomposizione, allo stesso modo la resina salva il deterioramento dell’oggetto ”fotografia” raffigurante l’entomo. C’è anche una parte sonora che rende la fruizione dell’opera sensoriale e immersiva, in cui ho montato in un’unica composizione i suoni che i vari insetti producono».

Nei tuoi progetti colpisce che aspetti della realtà, spesso drammatici o anonimi, sono trasfigurati nella calma di uno sguardo positivo e delicato.
«Siamo qui grazie a un atto totalmente gratuito. In tutti i miei progetti ricerco il riscatto di elementi insignificanti, disarmonici o sconvenienti. Per fare un altro esempio, nel progetto My Map ho trasformato, grazie all’intervento altrui, un mio intimo imbarazzo in qualcosa di positivo, trasformando segni chirurgici in artistici».

Prossimi progetti?
«Far sì che la mia ricerca arrivi agli ”addetti ai lavori” del mondo dell’arte. Voglio mettere alla prova e in discussione la qualità della mia arte e capire l’effettiva validità delle richieste del mercato e del sistema».