Esattamente un anno fa l’Unesco dichiarava L’Arte dei muretti a secco Patrimonio dell’umanità, come uno dei primi esempi di manifattura umana presente in modo sparso in quasi tutte le regioni italiana. La Puglia ne è piena. Non solo trulli, ma anche pajare, furneddhri, liame in pietra leccese, esempi di architettura agricola funzionali al lavoro nei campi usati in passato come depositi per i prodotti agricoli, per gli attrezzi, ricovero per gli animali, o abitazioni nei periodi di lavoro nei campi o di raccolta.
Ma analizzando le cave da cui provengono le pietre delle costruzioni pugliesi si scopre una produzione ancora più vasta e interessante, fatta di cave, strutture ipogee, architetture di risulta, create accidentalmente dall’uomo nel corso delle sue attività di estrazione.
Fabrizio Bellomo da diversi anni è impegnato a raccontare una Puglia molto lontana da quella fotografata dai turisti. Con il progetto Villaggio Cavatrulli, già presentato alla galleria Planar di Bari e in occasione di Arcipelago Italia, alla 16. Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia, Bellomo ha mappato alcuni dei siti derivati dal territorio cavato, immaginando una nuova condizione dell’abitare che sfrutta questi incastri di volumi pieni e vuoti che hanno lasciato sul territorio dei segni virtuosi di architettura. Da quest’estate il lavoro di Bellomo ha assunto una veste editoriale, come volume a tiratura limitata, il secondo della collana XXI. Guide d’artista, edita dal Centro Di e nata da un’idea di Giacomo Zaganelli, dedicata alle regioni d’Italia viste attraverso gli occhi degli artisti. Dopo la Toscana, di cui Zaganelli ha mappato i luoghi dimenticati, la Puglia di Bellomo regala una serie di cenni storici, suggestioni e ricordi di infanzia attraverso un leporello e una raccolta di testi che raccontano il progetto con interventi, interviste e riflessioni.
Da questa indagine realizzata percorrendo la Puglia dalla costa Adriatica, dove il sole sorge e il tramonto non lo vedi mai se non al di là delle dune, entrando nella Valle d’Itria dominata dagli ulivi scompigliati dal maestrale, fino alla punta di Leuca, per poi risalire dal versante Ionico, viene fuori un popolo di coltivatori della pietra, un popolo dall’eccezionale laboriosità che, inconsapevolmente, ha dato vita a un enorme bacino architettonico da cui attingere per creare nuovi nuclei abitativi.
“Uno dei luoghi che più mi ricordo della mia infanzia – scrive Bellomo – si trova sulla scogliera di Polignano, ed è un’antica peschiera romana scavata nella roccia. Risulta oggi come una piccola cava,. Una sorta di piscina con l’acqua molto bassa. Passavo gran parte delle giornate in quelle architetture cavate”.
Si tratta di costruzioni che nascono già estraendo la prima pietra e vengono completate per “via di levare”, dando vita a insolite architetture, che sprofondano nel mare o che si confondono con la brulla campagna circostante, come la storia “ di uno scoglio divenuto muro – ridivenuto scoglio”. “A Egnazia – continua l’artista – oltre al noto sito archeologico sul mare, si trova un muraglione di grandi conci cavati proprio dalla pietra della costa lì intorno. Molti conci delle mura messapiche sono col tempo ricaduti in acqua, ritornati ad amalgamarsi col mare, avvolti quindi da alghe e conchiglie e molluschi e oggi tane per grandi granchi favolli. Le pelose. La più grande da me mai catturata è stata presa qui”.
Impassibili bagnanti locali sembrano non curarsene, hanno inglobato queste strutture nella loro quotidianità. Bellomo le definisce “utopie realizzabili”, proprio perché molti di questi luoghi sparsi sul territorio sono in alcuni casi già stati oggetto spontaneo di riuso.
Individuando e archiviando questo arcipelago di frammenti, Bellomo immagina un assemblaggio di questi scarti per creare un vero e proprio villaggio di pietra. La vecchia ossessione di Bellomo per le griglie torna in questo caso sotto nuove forme di catalagazione. Villaggio Cavatrulli è il Monumento Continuo di Bellomo, che si snoda sul territorio attraverso l’uso modulare della pietra, sopravvive alle nuove architetture, le attraversa e convive con esse aspettando di essere codificato. È potenzialmente infinito, o almeno è proporzionale alla quantità di architetture nate grazie al materiale estratto.
“Ho voluto archiviare – spiega Bellomo – attraverso la fotografia queste architetture di risulta derivate dal paesaggio cavato. È un gesto che ha a che fare con l’azione del conservare la pasta avanzata. Si tratta di architetture non progettate, che spesso diventano architetture pubbliche involontarie. Come la pasta avanzata diviene pian piano piatto codificato nella sua trasformazione in frittata, questi avanzi architettonici diventano architetture da cui apprendere, da decodificare, da progettare, forse”.