Sonia Andresano è un’artista campana che vive e lavora tra Roma e Milano. Dopo un passato a L’Attico di Fabio Sargentini e diverse esperienze di residenza in giro per l’Italia, attualmente risiede negli spazi di Via Farini a Milano. Proprio questi transiti sono oggetto della sua ricerca in un percorso che dalla fisicità della scultura si smaterializza nella fluidità del video. Tuttavia è sempre lo spazio a guidare le diverse esplorazioni dell’artista tracciando una geografia simbolica di memorie e sentimenti personali, collettivi e archetipi. Sonia stessa ci racconta in questa intervista l’evoluzione del suo percorso e il suo rapporto con lo spazio del suo vissuto.
Come sei arrivata a prediligere il video come mezzo espressivo? «Il video è arrivato per caso, ho una formazione come scultrice. Il primo che ho realizzato è stato mio padre e suo figlio, volevo documentare l’abbattimento di una piccola parete nel mio studio-casa con l’aiuto di mio padre. Avevo una sola possibilità per filmare la scena live e per raccontare questo incontro. In seguito, grazie al montaggio, ho capito che era possibile modulare la nostra storia attraverso accenti visivi, sottolineature e interruzioni, rumori e silenzi. Da quel momento si sono susseguiti una serie di lavori video nati dall’esigenza di muovere lo spazio, di transitarlo registrando movimenti. Ho abbandonato le certezze del mezzo espressivo che conoscevo per annotare, fissare, memorizzare spostamenti, immagini, suoni e gesti.Utilizzo un linguaggio semplice e non prediligo virtuosismi tecnici, mi reputo una ”primitiva” e il mio approccio è sempre materico: non ho mai abbandonato la scultura».
Ogni tuo video è testimone di un rapporto con lo spazio, quello privato delle tue memorie e quello pubblico condiviso. Perché questo elemento è così importante per te? «Lo spazio è molle, come una materia da plasmare; è necessario, ci dà un limite. Come afferma Perec, è ciò su cui inciampa la vista, ha dei bordi e ci rassicura ma è contemporaneamente un dubbio, una casella vuota. Ogni volta che ho cercato di rimodellare uno spazio per evitare la destabilizzazione, lo spazio ha rimodellato me. Penso a residenza/resilienza realizzato per i Bocs Art di Cosenza dove con dei nastri luminescenti ho evidenziato i volumi delle cose che mi circondavano nel tentativo di bloccare dei punti di riferimento come promemoria dello spazio che abitavo. Il tentativo era alleggerire il disorientamento attraverso una segnaletica luminosa che rendesse riconoscibile nell’immediato l’effimero luogo buio, a metà tra psichedelia e onirismo. Nei miei lavori ogni gesto, azione, immagine si muove all’interno di una grammatica spaziale che non cancella mai le tracce del corpo anzi le registra e sottolinea, rendendole eterne in un infinito loop. È il movimento che produce lo spazio. Come una casalinga mi muovo, scelgo, sposto e scarto e ogni tentativo di ordine diventa nuovo disordine, una cosa fuori posto o l’ordine di un altro. Poi esiste un ordine di emergenza, che gestisce il disagio, che permette di transitare in un limbo come fosse un ripostiglio che trattiene il tempo di una vita per frammenti».
Anche il suono, nei tuoi lavori, è determinante. Nel caso ad esempio del tuo ultimo progetto tregradicentigradi, concepito per gli spazi di Via Farini a Milano, è il suono di un vecchio frigorifero ad accompagnarci nella scoperta… «È una scoperta in chiave domestica, da ritorno a casa. In questo contenitore prezioso le risorse sono da consumarsi nel tempo. Sigillando il futuro cerchiamo di controllare l’incertezza del domani rinviandone la decomposizione, catturando il tempo all’interno del suo ordine e decidendo dei giorni a venire. Il frigorifero è un’intercapedine che contiene anche una materia sonora, e mette gemiti a cui siamo abituati e che entrano a far parte della nostra quotidianità. Questa audio installazione cerca di addomesticare lo spazio e contemporaneamente di conservarlo.L’Archivio di Via Farini, come luogo ininterrottamente operoso, ha bisogno di refrigerio. Attraverso il gorgoglio diffuso di questo elettrodomestico invisibile, lo spazio diventa vivente, a metà tra una condizione interiore domestica e un luogo di studio, ricerca e scambio. Il titolo indica la temperatura media ideale per il buon funzionamento dell’apparecchio. Questo suono, sospeso in un’apparente stasi, logora preserva e conserva».
Trovo che il tuo lavoro sia fortemente legato alla tematica dell’abitare. All’interno dei tuoi video e delle tue azioni troviamo legami con le camere dove hai vissuto, cuscini, lenzuola ed altri elementi legati alla sosta e al riposo. Si tratta forse di una ricerca personale di intimità? «Ogni cammino è intervallato da una sosta, un‘attesa, un tempo necessario al recupero delle forze di chi è in moto perpetuo. Il corpo ha bisogno di momenti di stasi anche quando la mente continua a viaggiare da sola. Il riposo è un tempo, ”è l’ora di andare a dormire”. Abitare è attraversare, sostare e riposare, stare e tornare. È immaginare un perimetro necessario per occupare il proprio posto nel mondo. È occupare un sedile con la borsa e il giornale. Dormire in una stanza dai contorni luminosi pernottando sul letto del fiume con la testa adagiata su dei cuscini viaggianti; calpestare lenzuola di un corredo collettivo che tagliano lo spazio museale per 60 metri mentre una voce familiare accompagna il visitatore: sono tutti percorsi della mente, percorsi fisici e onirici che cercano di condividere un’intimità».
Altro elemento che ritorna nel tuo lavoro è quello del ”prendersi cura”, nello specifico penso soprattutto alla cura dei luoghi, la tua casa/studio e i tuoi legami affettivi in mio padre e suo figlio o dei negozi sfitti e abbandonati in Cresciteundo… Ho poca cura di me stessa ma mi riesce molto bene prendermi cura degli altri, della casa e degli oggetti, degli spazi e degli affetti. Ho imparato da piccola l’azione della cura. Prendersi cura significa dedicarsi, uscire fuori dal proprio recinto e creare insieme all’altro un nuovo confine. Per il progetto Cresciteundo ho in parte curato la proprietà privata altrui. Molti erano perplessi all’idea che volessi ripulire gratuitamente dei negozi abbandonati a degli sconosciuti. Credo perché non si è molto abituati alla bellezza dei gesti spontanei, a qualcuno che avrà cura di noi. Allora penso a La cura di Battiato, alla dicitura ”a cura di” e alla figura del curatore nell’arte. Penso a Claudio Libero Pisano, ad Alice Cerigioni, che come pochi si dedicano con attenzione al lavoro degli artisti e aggiungo che in questi rari casi la parola curatore fa rima con guaritore».
Ho notato un aspetto, forse secondario, ma che credo ti rappresenti molto. I titoli delle tue opere sono sempre in minuscolo, si tratta di una scelta motivata? «Senza le maiuscole il flusso non si interrompe. Significa non tagliare il filo che unisce il bottone al rocchetto grazie all’ago. Significa stare nel mezzo, tra. In questo modo è come se collegassi un lavoro ad un altro senza chiudere mai il periodo. Non esistono porte, non c’è ne inizio né fine ma solo un tempo pausato dalla barra spaziatrice come fosse un metronomo».
Molti tuoi lavori hanno anche a che fare con la dimensione pubblica, penso ancora una volta a Cresciteundo, ma anche a sul letto del fiume, chi è il vero destinatario delle tue esplorazioni? «Spesso staziono su un ponte, tra l’ordine della casa e quello della società attraverso un doppio movimento. I veri destinatari di questi attraversamenti, più che esplorazioni, sono tutti, nessuno e me stessa. Ogni movimento per l’altro, verso l’altro diventa sempre un moto inverso, un ritorno verso casa dove tutto comincia e in cui tutto ritorna. L’incontro è un viaggio e come ogni viaggio il risultato è il tragitto».
Di recente, in occasione della tua residenza a Via Farini sei passata da Roma a Milano. Quali sono le tue impressioni? «Cosa ti manca e cosa senti già tuo della nuova vita? A maggio sono passata da Roma a Milano, ho lasciato L’Attico dopo nove anni, non è stato facile. Sentivo l’esigenza di andare via da Roma ma nonostante ciò rimane il mio punto di ritorno. Mi sono spostata da Archivio ad Archivio approdando a Via Farini, una realtà in continuo movimento, il luogo ideale per me. Qui gli artisti arrivano, partono, ritornano e rimangono, ogni volta nuovamente accolti da Patrizia Brusarosco e da Giulio Verago, la direttrice e il curatore della residenza che hanno reso questo luogo connesso, ”on line”».
Roma/Milano solo andata. «Di Roma mi manca la Tangenziale che taglia prepotentemente la Prenestina, il Gazometro, il Tevere, il quartiere Garbatella, la vista dal terrazzo dell’Accademia di Spagna. Di Milano adoro già i vecchi tram restaurati che girano per la città, i tabelloni funzionanti alle fermate che indicano il tempo esatto che manca all’arrivo dei mezzi di trasporto, la vista del Duomo mentre si salgono i gradini dell’uscita della Metro, il soffitto altissimo dell’Hangar Bicocca, la Metro Lilla che non ha il conducente, mi piace sedermi avanti e far finta di guidare».
Milano/Roma andata e ritorno. «Quando ritorno a Roma mi piace andare a trovare Sargentini senza preavviso, senza l’ansia di dover guardare l’orologio per strada per paura di fare tardi. Mi piace andare nella chiesa di San Giorgio al Velabro quando non c’è nessuno e dopo perdermi nei vicoli del Ghetto Ebraico. Quando ritorno a Milano mi piace andare la mattina presto alla Fabbrica del Vapore per godere del silenzio e di quella temporanea immobilità. Più tardi sentire il rumore dei passi di Giuseppe sul soppalco metallico mentre dipinge e vedere Zampa, la cagnolina storica dell’arte, che si trascina il collare sul pavimento».
Uno dei tuoi lavori che amo di più (si può dire?) è peso leggero. In questo lavoro, presentato lo scorso anno ad AlbumArte a Roma, ogni elemento concorre ad una dimensione paradossale. Ce ne vuoi parlare? «Se rimango sul paradosso mi viene subito in mente l’interno del tir: una piccola dimora che l’autista teneva in rigoroso ordine. Quella mattina, nonostante non immaginasse la mia richiesta, mi permise lo stesso di salire ”a casa sua”. Posizionò per me il pesante mezzo al limite della chiatta mettendo un mattone sotto le ruote anteriori e mi raccomandò di non toccare la leva del cambio altrimenti sarei caduta nella laguna. Poi mi lasciò da sola a bordo durante il trasporto. Ero seduta al volante e vedevo davanti a me solo acqua e dagli specchietti le barche che mi sfrecciavano ai lati: sembravo sospesa, mi sentivo leggera. Tante altre cose rientrano in una dimensione paradossale, prima e dopo la realizzazione di questo lavoro. Ci sono molti retroscena, a mio avviso tutti interessanti, anche perché c’è voluto un anno per ottenere il permesso di entrare in cantiere. È stato possibile solo grazie all’aiuto fondamentale di Cristina Dinello Cobianchi, che nel giro di poco tempo è riuscita ad attivare una catena veneziana di aiuti: amici, artisti, curatori, imprenditori. Finalmente potevo registrare quell’immagine che mi è rimasta davanti agli occhi per tutto il tempo, quando per la prima volta ho visto a Venezia un tir sull’acqua. Il desiderio di salirci è stato immediato, come una bambina su una giostra. Prendendo in prestito il titolo del bell’articolo/intervista di Valentina Muzi a Claudio Libero Pisano: fu davvero l’inaspettata leggerezza dello spostamento».
Quali sono i tuoi progetti futuri? Cosa ci dobbiamo aspettare nei prossimi mesi? «Sono due i progetti al momento più urgenti che viaggiano su un trenosenza fermate.Uno verrà presentato a Milano e l’altro a Roma. L’opera che ci faccio qui? parla della vertigine domestica di un robottino aspirapolvere che sembra cercare casa muovendosi sul perimetro dello spazio. Un video realizzato all’interno di uno dei locali della Fabbrica del Vapore allo scopo di rimovimentare, in chiave domestica, un luogo nato come Fabbrica di Tram. Jet lag invece parla di orari sfasati, fusi, in e fuori tempo, all’interno della stessa città: Roma. Questo lavoro vede la partecipazione straordinaria del batterista Marco Rovinelli. A metà tra un video, un’installazione sonora e una performance, questo progetto tenta di ribaltare un disservizio in un viaggio visionario che sembra attraversare contemporaneamente tante città con diversi fusi orari in soli 2 Km circa. Entrambi, in maniera diversa, raccontano una quantità di spazio attraversato, toccando luoghi vicini e lontani in un piacevole disorientamento».