La possibilità di un paesaggio

Roma

Per quanto assurdo possa sembrare il paesaggio non è sempre stato un genere autonomo. Nella storia dell’arte è sempre servito da sfondo, più o meno importante, più o meno particolareggiato ma pur sempre fondo. Da quando le cose iniziano a cambiare, siamo nel XVI secolo, comincia l’ultima fatica di Angelo Capasso: Naturans. Libro edito da Skira che ha l’ambizione di raccontare i mutamenti dell’idea di natura dal punto di vista delle pratiche artistiche dal Seicento olandese a Nico Vascellari. «Il titolo Naturans – spiega l’autore – è un rimando alle teorie di Spinoza. Immaginavo un paesaggio distante da quello tradizionale, un paesaggio esteso. La natura nel filosofo – continua Capasso – è vista come naturante, in evoluzione. Questo evolversi allora mostra diverse potenzialità e modalità di paesaggio. La natura diventa generativa, crea in automatico, come una sorta di algoritmo che imposta più possibilità di paesaggio». Dato il ventaglio temporale enorme e un concetto dell’oggetto d’analisi necessariamente espanso, uno dei primi problemi da risolvere per Capasso è stato il concetto di contemporaneo. «Ho cercato di affrontare la questione della storia. Affrontando il contemporaneo – dice infatti Capasso – mi sono affidato alle teorie di Agamben. È stato lui infatti a chiarire la questione terminologica: il contemporaneo è il buio del presente, un punto di fuga nascosto. Essere contemporanei quindi è stare dentro e fuori il tempo: riuscire a guardare il presente con occhi critici. È questa la mia postura nel testo: il critico che guarda la storia e non lo storico, il mio qui è uno sguardo selettivo».

Il testo comincia con l’idea di arte come finestra sul mondo. Quando cambiano le carte in tavola?
«Tutto parte dalla cornice che è un principio di libertà per l’artista: decide lo spazio da inquadrare, lo spazio del visibile. Nel ritratto c’è un fuoco forte: il volto del soggetto; nella natura c’è un campo libero. Il concetto di finestra sul mondo viene meno quando salta l’idea convenzionale della natura. L’esterno non viene più inteso, o almeno non soltanto, come elemento fisico ma anche come fatto psichico. Nel testo faccio due esempi: la finestra di Duchamp, Fresh widow, che è una sorta di interruzione del mondo e l’altro è un dipinto di Magritte, Paysage. Qui in realtà non c’è nessun paesaggio, resta solo la cornice. Per tornare poi di nuovo a intendere la natura in termini fisici servirà la Land Art che riconoscerà la totalità del mondo che diventa scultura».

E rompe totalmente con la cornice.
«Esatto. E regala la possibilità di entrare dentro l’opera».

E infatti nel testo c’è Anselmo con Entrare nell’opera.
«Certo, qui Anselmo fa capire che entrare nell’opera è diventata una condizione normale, una necessità che si vaporizza nell’azione e poi corollario fondamentale è che l’artista è dentro l’opera e quell’opera è il paesaggio».

Land art, Mono ha e Arte povera segnano il passaggio dalla prima alla seconda sezione del libro. Tre declinazioni, di altrettante nazioni, di uno stesso tema: il paesaggio ovviamente.
«È un moneto storico fondamentale: cambia la coscienza che scopre un carattere globale dell’arte; tutti raggiungono il paesaggio con motivazioni diverse. In Europa prevale la radice storica che porterà al concettuale di Boetti, Paolini, ecc.; negli Stati Uniti vince il concetto naturale che predomina sul paesaggio: Go West Yough Man dicevano i padri pellegrini, è insito nella cultura statunitense andare oltre il paesaggio, superare orizzonti fisici. Il Giappone invece realizza un paesaggio politico, una ribellione nei confronti del dominio della cultura statunitense e quindi un recupero delle tradizioni».

C’è forse un assente nel testo, tranne per una rapida citazione a Matta Clark: il paesaggio urbano.
«Assente giustificato potremmo dire: volevo un libro sul paesaggio naturale, quello cittadino è molto connotato. È stato più interessante per me parlare di una realtà non fatta da mano umana ma che l’uomo guarda, ammira, casomai lavora. La natura intesa così diventa una forma anarchica che si realizza da sola e impone all’artista di ritagliarsi un suo spazio. Qui è l’uomo che guarda qualcosa che non ha creato ma che ancora può creare, è il grado zero della scrittura».

E poi ovviamente Beuys e Baruchello.
«Quello è l’aspetto politico. Più che un fatto estetico del paesaggio comincia a prendere forma un’idea etica della natura. Il paesaggio allora diventa una scelta di campo in tutti i sensi. Baruchello fonda l’agricola cornelia, decide di mettere da parte tutte le forme, diciamo così, ideologiche dell’arte per fare un’arte invece di natura. Lo stesso ha fatto anche Beuys quando ha realizzato 7000 querce, l’installazione a Documenta: costruire il paesaggio, ecco costruire il paesaggio diventa allora un atto politico».

C’è anche spazio, e siamo alla fine del testo, per il Terzo Paradiso di Pistoletto.
«Sì, a mio avviso quel lavoro è una rilettura della terza via di Beuys. Magari il Terzo paradiso è un termine più efficace forse, ma il concetto è simile. Bisognerebbe capire anche cosa intende Pistoletto per Terzo paradiso perché lui ha diviso radicalmente la visione estetica dalla visione etica mentre i due fattori per Beuys erano un tutt’uno. Pistoletto realizza forme molto seducenti, dice cose molto interessanti però non vedo un’azione di trasformazione così radicale come è stata per la pratica di Beuys. In questo senso ovviamente c’è anche Gilles Clement che parla del Terzo paesaggio, quello anarchico: sono le stesse cose di Pistoletto ma spostate in architettura. Credo quindi che sia un po’ nell’aria questa tendenza del paesaggio che divide la sfera etica da quella estetica, non vedo dei paesaggi come quelli della Land Art che avevano la duplice funzione di dimostrare che la natura è sia la forma che il contenuto allo stesso tempo. Quello che vedo qui sono forme e poi più in là teorie, ideologie; è un po’ diverso. Come se ci fosse solo la possibilità di salvare il mondo dall’inquinamento o solo la possibilità di raccontare tutto esteticamente, manca forse un’azione».

Non è un caso che infatti il Terzo paradiso è nella sezione nella quale il paesaggio si ristringe e diventa giardino.
«Esatto, questo è un punto. Il lavoro dell’artista del paesaggio comincia a diventare quasi una pratica part- time. Prende diverse declinazioni e in tempi recenti forme piuttosto educate, ecco perché giardino: un paesaggio portatile, casalingo. Sono esperimenti in vitro che potrebbero coinvolgere grandi dimensioni ma non lo fanno. Questo libro alla fine scopre un andamento circolare e nelle ultime pagine torna un po’ il concetto iniziale del paesaggio Olandese del Seicento nato dalla luce e da questo forse potremmo ripartire riscoprendo un respiro più largo, spostando l’orizzonte e allargando di nuovo il campo».

Info: www.skira.net/books/naturans