Andreco è un artista, un artista che ha studiato Ingegneria Ambientale, un artista che è rientrato in Italia da poco e, in particolare in quest’ultimo periodo, è cresciuto molto nella scena contemporanea. Già dai primi anni del 2000, inizia una ricerca sulla ”sostenibilità urbana”, con approfondimenti sui benefici che l’uomo può trarre dall’ambiente. E con il tempo nascono le sue immagini, immagini che costruisce per strutturare le sue opere, immagini che hanno un’impostazione scientifica alla base e sono anche belle. Così, inizia a realizzare progetti multidisciplinari: il rapporto tra lo spazio urbano e il paesaggio naturale, tra l’uomo e l’ambiente in tutte le sue declinazioni…
Le tue opere sintetizzano, sempre di più, i concetti dai quali si sviluppano le tue ricerche. Così nascono ”i tuoi simboli”, nascono delle immagini specifiche, e penso alle rocce con i loro interspazi bianchi, sottili, decisi e “presenti” in tutta la composizione. Oggi, non solo queste immagini ma immagini simili mi rimandano sempre a te. Quando le vedo, anche in altri contesti, penso al tuo lavoro. Perché il tuo è diventato un linguaggio, un linguaggio espresso visivamente, senza parole, ed è allo stesso tempo un linguaggio concettuale. Quindi complesso, complicato. Quando l’ho visto per la prima volta non l’ho capito, era Melancolia, una scultura per Altrove Festival 2017. Mi aveva colpito per la sua strutturazione un po’ ermetica, un po’ bizzarra, e tutta mi suonava come strana, e ho chiesto ad un amico di chi fosse. Così, dopo poco ci siamo conosciuti… Perché? Perché volevo capire cosa c’era dietro a tutto quello.
Melancolia è una scultura permanente in ferro, terra e piante, posizionata al centro dei Giardini Nicholas Green, in una piccola piazza lungo il corso principale nel centro di Catanzaro. La piazzetta è contornata da panchine che sono rivolte verso la scultura in modo concentrico, è inevitabile osservarla quando ci si siede. L’opera è composta da una sovrapposizione di forme iconiche che vengono lentamente sbranate da rampicanti, vuole essere uno spunto per la riflessione, un approdo per pensieri discostanti e inattesi, magari anche malinconici, oltre che essere un omaggio alla famosa incisione di Dürer da cui prende il nome. Considerando la tua reazione, mi sembra stia funzionando…
Tecniche. Pratiche. Disegno, pittura, scultura, video, e combinazioni varie. Poi performances, e poi le ”Parate”. Arte pubblica e Arte partecipata. Cosa ti piace fare di più? Qualcosa che ogni volta ti fa pensare, ”lo voglio rifare presto”. Già, hai mai avuto questa sensazione? Immagino di sì. E quando? E perché, se te lo sei mai chiesto…
Le tecniche per me sono solo delle declinazioni di linguaggi che permettono di esplorare un’idea da vari punti di vista. Non sono legato ad una tecnica in particolare, mi piace sperimentarne sempre di nuove. Sono solito non ripetere quello che già so fare ma aggiungo sempre un elemento di rischio in tutti i progetti, in cui tengo sempre una parte sperimentale. Questo approccio progettuale, oltre ad essere mosso da un’infinita curiosità, viene dalla ricerca scientifica applicata in cui ho sempre creduto. Quello che invece rimane stabile è la mia linea di ricerca che, come un grande serpente, continua a crescere, alimentato dallo stratificarsi di idee, esperienze ed esperimenti. Questa ricerca mi ha portato in un terreno di indagine cross-disciplinare tra arte-scienza-ambiente e attivismo. Per risponderti direi che tra tutte le cose che faccio, sicuramente le performance collettive hanno una complessità maggiore, racchiudono molte pratiche al loro interno. In alcune performance come Reclaim Air and Water in India o Rockslide and the Woods a Centrale Fies nel 2016, entrano in gioco una molteplicità di discipline: il movimento, il disegno, la danza, la musica, l’azione diretta, la recitazione, la scultura, l’installazione, la pirotecnica. La performance è quanto di più si avvicina alla tanto discussa idea di opera d’arte totale. Ed ecco che il serpente inizia a muoversi come in un rituale descritto da Aby Warburg (Il rituale del Serpente).
Le piante sono rivoluzionarie. Esistono da prima di noi e probabilmente rimarranno anche dopo di noi. Hanno tante capacità: possono depurare dagli agenti inquinanti e mitigare gli effetti disastrosi causati dai cambiamenti climatici. Piante, ecosistema e società contemporanea e, per avviare un processo ”di liberazione” da quello che non va, dovremmo affidarci di più a loro, per le loro capacità, appunto. E per raccontare tutto ciò, tu usi anche delle bandiere, ferme o portate da qualcuno, come nelle tue ”Parate”. Ecco: una bandiera che non hai ancora creato e che vorresti creare. Quale è la bandiera che vorresti sventolare adesso, se ti ripensi ora.
La mia bandiera è ”Nessuna Bandiera”, ovvero una bandiera nera con scritto in grigio chiaro: ”Nessuna Bandiera”. Le mie bandiere sono pezzi di paesaggio, sono elementi della natura, sono piante, sono reazioni chimico-fisiche e biologiche che avvengono in prossimità di rizomi e radici. Sono bandiere contro le bandiere e l’identità, sono alterità, non rappresentano un’appartenenza, un gruppo, uno stato, una squadra, sono in contrapposizione con le definizioni chiuse, piuttosto aprono delle possibilità, sono opere aperte.
Antropocene. Ultimamente ne sentiamo parlare spessissimo. E una tua opera si intitola L’era dell’antropocene, un lavoro in cui ”le tue rocce” si sgretolano, come risucchiate da una forza centripeta che le attira in un cono ventoso verso il basso. Una visione negativa o no. Una visione. Una tua immaginazione estrema…
Siamo di fronte ad una crisi ambientale e climatica senza precedenti. Stiamo contaminando l’ecosistema in cui viviamo, l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo. Ci siamo illusi che l’estrazione senza sosta di risorse naturali sia la strada più veloce per la conquista di una posizione di dominio, ma in realtà chi persegue queste pratiche di accaparramento non è il più furbo, ma il più inetto. Un intero sistema produttivo va cambiato radicalmente. Bisognerebbe partire dalle cento aziende, prevalentemente centrali a carbone e società petrolifere, che sono responsabili di più del 70% delle emissioni industriali di gas serra climalteranti dal 1988. Una rivoluzione culturale è fortemente necessaria per far transitare la nostra civiltà dell’Antropocene da concezione Antropocoentrica ad una Ecocentrica del pianeta. Il mio lavoro di artista e di ricercatore, da circa un ventennio, è influenzato dalle questioni ambientali. E Parata della Fine, il rituale dell’antropocene, è la performance che ho realizzato al Centro Pecci nel 2017 per mettere in scena un futuro possibile, non auspicabile, di estinzione della specie umana.
Se le tue opere fossero delle canzoni… Abbiamo già fatto questo gioco. Ti ricordi? Quando provavamo a pensare ad un titolo per la presentazione del tuo lavoro a Casa Musumeci Greco l’anno scorso, che poi abbiamo chiamato Primitive. Ma prima di arrivare a questo titolo abbiamo passato diverso tempo a fare delle associazioni tra titoli di album (o pezzi) e la tua ricerca. Perché anche per te (mi era sembrato di capire quella sera) la musica è una componente importante, una componente che accompagna nella crescita. Una melodia che rimane. Quindi? Qualche bel disco della ”tua rivoluzione” che ti viene in mente se pensi a dei tuoi lavori. Ti do il mio: In utero dei Nirvana. E poi mi si sono aperte tante nuove visioni e sono arrivate le altre canzoni.
Nel mio studio si ascolta molta musica, che consideriamo una compagna fondamentale dei momenti di produzione. Spaziamo dalla Bossa Nova Brasiliana al post punk, dallo stornello popolare al darkwave, dal grindcore alla musica classica. Se le mie opere fossero musica, probabilmente sarebbero delle composizioni realizzate sovrapponendo delle registrazioni sul campo, field recording: il rumore del vento in vetta a una montagna, suoni dei fondali marini, delle cicale nei campi, delle fronde degli alberi, dei macigni che cadono durante una valanga. Registrazioni che, tra l’altro, in parte abbiamo cercato di fare e abbiamo usato per alcuni miei video e performance.