Il Corpo e Silvia

L’opera di Silvia Giambrone fa esprimere “il corpo” e lo fa attraverso opere, performance, installazioni, suggerendo spostamenti, sensazioni, reazioni. La sua è una precisa dichiarazione. Una ricerca che elabora un linguaggio: una pratica politica. E fa emergere – partendo dall’intimo e arrivando sempre lì – qualcosa di sepolto. Cosa è concesso alla visione, cosa non è concesso. Cosa possiamo dire, cosa non possiamo dire. Che lingua parliamo e che lingua vorremmo parlare. Come sviluppiamo le nostre relazioni, quelle private e quelle pubbliche. Come è il nostro corpo nel mondo.

Sei spesso in giro, soprattutto ultimamente. Ma parlami del tuo ”domestico”. I tuoi lavori lo raccontano, vogliono farci avvicinare a questo aspetto della vita di tutti noi, di tutti giorni. Una componente fondamentale. La mia è una domanda intima e provocatoria. Ma mi piace fartela. E poi, più in generale, perché il ”domestico” nella tua ricerca. Come e perché hai pensato di raccontarlo.

Più che di voler raccontare credo si tratti di ascoltare, mi sembra infatti che gli oggetti e in particolare gli oggetti domestici abbiano delle cose da dire e credo valga la pena porgervi orecchio. Si tratta, per quanto mi riguarda, di dare spazio all’innato sospetto, alla necessaria vertigine che la realtà non sia quella che sembra e rinegoziare lo spazio vitale con i fantasmi con i quali cresciamo e che insieme a noi abitano il domestico. Non tutto ciò che esiste è visibile e l’arte ha il privilegio di aprire un varco su questa dimensione ignota. Per me gli oggetti del domestico sono l’occhiello da cui spiare questo mistero. Credo tra l’altro che l’indagine sul domestico, questa sorta di operazione archeologica che mi è congeniale, sia anche la cifra più espressamente femminista del mio lavoro perché credo che più compiutamente di ogni altro movimento, il femminismo nell’arte abbia interrogato le cose di ogni giorno, le cose che si credevano troppo poco influenti per essere davvero politiche.

Sei appena tornata ”vincitrice”. Hai appena vinto il Premio VAF. Te lo aspettavi? Vincere un premio vuol dire ”arrivare”, e con questo qui intendo dire ”essere compresi”: vuol dire avere una risposta positiva. E, per un’analisi come la tua, una ricerca che è non facile, che non è immediata, ma  sofisticata e ricca di strati, è molto, molto importante. Sì, perché vincere un premio, significa essere riconosciuti. Ed è bello ”arrivare a qualcuno”. Molte volte penso a quello che faccio, e molte volte le risposte mi arrivano proprio perché qualcuno me le dà, con parole o con gesti che mi ritornano indietro. Ecco, questo è uno tra gli aspetti più vivificanti del nostro lavoro, il tuo, il mio, in parte simili. Ma, allo stesso tempo, sono convinta che non tutte le cose in cui crediamo arrivano e ritornano. Cosa hai provato quando hai saputo della notizia, del premio. Cosa hai pensato? Ti sei chiesta perché? E che emozioni hai vissuto e vivi ora, se ci ripensi?

Del premio sono molto contenta soprattutto perché si tratta di un premio che arriva da una selezione molto seria e fatta con metodo. Mi è sembrato di vedere che il premio cercasse di individuare una cifra ”italiana” nel lavoro dei giovani artisti che vagliava. Una cifra comune quindi ma anche una cifra che individuasse una sorta di corrispondenza con la storia dell’arte italiana. Di cosa parlano gli artisti italiani? In che modo si legano alla storia che li precede? Cercando così di fare un ragionamento ampio sull’arte italiana, ricercando un approccio critico, un approccio non certo originale ma gloriosamente rigoroso. In Italia al momento la critica d’arte, intrappolata nel canto monocorde dei comunicati stampa e ostaggio di manie descrittive, sembra avere disertato un orizzonte complesso e appare invece sempre più spesso più mercenaria che militante, guidata più dal vanitoso bisogno di dimostrare postulati autoreferenziali che dal fare domande su cosa stia succedendo davvero. Forse a un occhio ”straniero” come la Fondazione VAF che è tedesca, fare il punto della situazione risulta un po’ più naturale, forse come diceva Walt Whitman ”abbiamo bisogno dello straniero che passa per rigenerare la nostra ricerca, di quello straniero che dobbiamo aver cura di non perdere per assicurarci che il nostro desiderio resti vivo”.
Spero che una nuova generazione di storici dell’arte o critici studiosi osi un approccio più ardito facendosi carico del proprio immaginario, della propria fantasia, della possibilità di parlare ancora e di nuovo di storia dell’arte italiana e diventi compagno di strada degli artisti suoi coetanei.

 

Un’opera che hai in mente di fare e che non hai ancora fatto. Un’opera che non avresti voluto fare. C’è un nuovo linguaggio che ti piacerebbe aprire ed esplorare. E, a proposito di linguaggio, il tuo rapporto con la parola, il suono, la melodia, il rumore.

Nessun rimorso sulle opere già realizzate, ogni opera ha qualcosa da dire, non tutte escono dallo studio e quelle che restano le considero ribelli. Opere che vorrei fare ce ne sono molte e hanno tutte in comune l’essere di scala maggiore rispetto a quelle che ho realizzato fino ad ora. Penso di essere pronta per questo salto. C’è una performance che vorrei fare che coinvolgerebbe centinaia di persone. Mi piacerebbe anche progettare un cimitero. Mi piacerebbe realizzare commissioni pubbliche e private. Alcuni pensano che il mio lavoro, avendo come luogo di elezione il domestico, poco si adatterebbe a commissioni pubbliche e private su larga scala, e invece no perché ho lavorato diverse volte su progetti site-specific e so di poterlo fare. Spero che qualcuno me ne dia l’occasione. Un linguaggio nuovo che mi piacerebbe molto esplorare è la recitazione, recitare a questo punto mi incuriosirebbe molto. Parola, suono melodia e rumore sono per me tutte variazioni del silenzio che vivo come inevitabile presupposto erotico del mio lavoro.

Un incontro che ti ha cambiata, che ti ha fatto scorrere qualcosa dentro, qualcosa che scorre ancora adesso. Raccontami una sensazione. Ci sono dei momenti che ci segnano, delle persone che ci aprono nuovi mondi, un’immagine che ci cambia. Una gioia, un dolore. Se vuoi.
Pensa ad un’impressione, così la visualizzo…

Quando avevo 15 anni andai con la scuola a vedere Palazzo Abatellis a Palermo dove vidi l’Annunziata di Antonello da Messina. Ricordo ancora chiaramente il momento in cui la vidi per la prima volta e come quel gesto della mano mi abbia fermata e spiazzata con una autorevolezza che è propria solo di una vera e profonda bellezza. A quel punto la stanza non era più la stanza di un museo ma il luogo di un formidabile incontro. Ricordo che dissi a me stessa con audace ingenuità di adolescente che mi sarebbe molto piaciuto fare agli altri quello che l’Annunziata aveva fatto a me. Quella insolente velleità adolescenziale non si è ancora consumata, mi anima ancora.

 

Se non facessi l’artista. Sposti mai il tuo punto di vista? Ti immagini a fare qualcos’altro? Qualcosa che senti possa essere naturale per te.

Sono certa che potrei fare molte altre cose ma sono altrettanto certa di non volerne fare nessun altra.

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