La Scala e Aramco, in scena una farsa italiana

Milano

Le indegne beghe politiche milanesi degli ultimi giorni hanno compromesso forse definitivamente l’ingresso di Aramco, la compagnia petrolifera saudita tra le più grandi al mondo, nel Teatro della Scala. Una farsa che ha provocato tre conseguenze: 1) la perdita di 15 milioni di sponsorizzazione; 2) la probabile cancellazione di una ben remunerata collaborazione per la creazione di una scuola operistica a Riad; 3) la probabile posa di una pietra tombale sulle future collaborazioni culturali e commerciali tra Arabia Saudita e l’Italia. Collaborazioni alle quali la nostra ambasciata lavorava da tre anni. Mentre tutto questo sciupio andava in atto, con francesi, spagnoli e britannici felicemente pronti a sostituirci, ho colto l’occasione dell’apertura di alcune mostre d’arte contemporanea a Riad e Gedda per vedere che aria tirasse sul suolo saudita e per tentare di capire perché mai i vertici delle istituzioni pubbliche milanesi abbiamo chiuso la porta in faccia ad Armaco, utilizzando scuse, per altro patetiche, come la mancanza di causale nel deposito notarile. (Vi pare che una persona sana di mente rifiuti per un fatto formale una sponsorizzazione da 15 milioni?) Ma partiamo dall’inizio. Perché la Lega di Attilio Fontana e il Partico Democratico di Giuseppe Sala hanno detto no ad Aramco? Semplice: per puro opportunismo politico. La Lega per finto patriottismo e per non lasciare spazio ai Gasbarri e Larussa, il Pd per finto femminismo e solito moralismo. Se glielo chiedete loro vi racconteranno un’altra storia. Ma i fatti sono questi. Se invece andate a trovare l’ambasciatore italiano a Riad, cosa che io ho fatto, troverete un uomo che ha lavorato anni per ricostruire un rapporto equilibrato che facesse recuperare al nostro paese opportunità in vari ambiti, dalla cultura agli armamenti, e che ora si trova sbugiardato a causa di piccole beghe di bottega lombarde. Tuttavia su di un punto non si può che non concordare con Fontana. Il direttore della Scala Alexander Pereira (nella foto in basso) è a dir poco un dilettante. Perché è vero che questa operazione meritevole l’ha inizialmente pensata lui, ma poi l’ha gestita così male da arrivare al disastro di queste ore. Un manager capace, e alla Scala ci si aspetta di averne soltanto così, avrebbe dovuto preparare e gestire il consenso all’interno del Consiglio d’amministrazione ben prima di portarvi il contratto.

L’austriaco invece ha tentato una sortita furbesca che ha sconquassato il tutto. Ciò chiarito, la responsabilità di questo fallimento ricade tutta sulle spalle di Sala che è presidente del Cda e di Fontana. E se non è paragonabile ai no delle Olimpiadi a Roma della Raggi e lo stesso no dell’Appendino a Torino, perché le poste in ballo sono imparagonabili, in termini di approccio politico poco ci manca. Il punto centrale della questione è infatti l’incapacità della politica, anche di due persone altrimenti serie e qualificate come Sala e Fontana, di fare le scelte più opportune per la cosa pubblica e non quelle più convenienti da un punto di vista elettorale e di consenso. Di avere in altri termini la visione poltica e il coraggio delle proprie scelte. La Scala, Milano e tutta la lirica italiana meritavano lo sviluppo internazionale che il rapporto con Aramco avrebbe portato. Era una grandissima opportunità che ora, salvo giravolta dell’ultima ora, coglieranno i nostri cugini europei. Noi invece abbiamo detto no perché Fontana non ha saputo resistere alla pancia lombarda che non vuole arabi nel tempio della lirica e perché Sala non ha saputo lasciar cadere le pressioni pseudo femministe e libertarie (vedi il caso Kashoggi) della sua parte politica. Si è trattato soltanto di piccolo calcolo politico, di mettere la faccia dove la propria gente la vuole vedere. Perché qui il tema non era dare una promozione morale all’Arabia Saudita, che certo non ha bisogno di noi. Qui il tema era fare qualcosa di buono e di utile per la Scala, per Milano e per il Paese. E che quello della politica milanese sia un atteggiamento ipocrita è dimostrato dai fatti. Quando si tratta di accordi commerciali veri, quelli con molti zeri per intenderci (delle aziende private o dello Stato che siano), nessuno dice niente. Perché lì si toccano interessi grandi. Anche quando facciamo affari con giganti della democrazia e paladini del femminismo e della libertà, come la Russia, la Cina, l’Egitto o la Turchia, tanto per fare qualche esempio, tutti zitti. Poi arriva qualche milione per la cultura e siccome i riflettori mediatici sono accesi ecco che tutti si trasformano in puristi e strenui difensori della più alte libertà morali e civili.

Fontana e Sala certamente sanno bene che la moda italiana, tanto per fare un esempio, esporta la maggior parte dei suoi prodotti proprio nei paesi di cui sopra. Per non parlare delle multinazionali pubbliche, alcune presenti anche nel Cda della Scala, che giustamente lavorano in tutto il mondo. Perché il punto, diciamolo chiaro e forte, è che noi occidentali non possiamo fare la morale a nessuno. Eravamo e siamo rimasti, combattendo con armi diverse, colonialisti. Non è questa la sede per fare una analisi geopolitica sul neocolonialismo. Ma un concetto sintetico si può affermare anche qui: l’economia è globale e regna sovrana sui mercati e alla fine anche sulla politica e sui governi. ”Business is business”. Lo sanno tutti e a Milano lo sanno meglio che altrove. Ma quando si tratta di cultura e di cifre basse, allora si può fare i moralisti, gli schizzinosi. Pochi soldi bruciati valgono bene un po’ di visibilità e aiutano a rifarsi una immagine da puristi.

Ecco, la storia è tutta qua: una brutta foglia di fico che il duo Fontana-Sala ha partorito per evitare di restare ciascuno con il classico cerino in mano. E in Arabia Saudita come vanno le cose? Sono andato a Riad e a Gedda anche per assistere a l’opening di due importanti mostre di arte contemporanea. Una intitolata The Red Palace, di Sultan bin Al Fahad, l’altra della Galleria Athr di Mohammed Hafiz, dove venivano presentati una serie di giovani talenti sauditi. Tutto molto interessante e che si faccia arte contemporanea a questo livello in Arabia Saudita è di per sé una notizia che molti in Italia disconoscono, ma di questo parlerò in un altro articolo. Qui mi preme raccontare in breve ciò che in questa visita ho potuto vedere. Un Paese cresciuto su un istituto giuridico chiaro che è quello della famiglia, o a volte della tribù, e che da millenni è moralmente guidato dai dettami religiosi del Corano. Cose non troppo diverse dalla nostra cattolica e familistica Italia. La diversità sta nei tempi e nella scoperta del benessere, in Europa, ad esempio, giunto ben prima. Con il benessere arriva la cultura, la socialità, la modernità. L’Arabia Saudita ha avviato un programma che si chiama Vision 2030, un progetto che punta ad uno sviluppo complessivo del Paese nel medio periodo. I risultati già cominciano a vedersi. Te ne accorgi appena esci dall’aeroporto. Quelli infrastrutturali li dò quasi per scontati. Mi piace invece sottolineare le aperture fatte per le donne, che non hanno più l’obbligo del velo, possono guidare e andare da sole al cinema. Certo la strada è ancora lunga, ma per le nuove generazioni sono conquiste epocali. Insomma l’Arabia Saudita è un paese che sta cercando con i suoi tempi di mutare una pelle e una storia millenaria, stando in una area geografica, non dimentichiamolo, assai complicata dove i conflitti sono a sud, a est e qualche minaccia arriva anche da ovest. Ecco, l’accordo con la Scala era un ennesimo segno di apertura e di attenzione della loro cultura verso la nostra cultura. E la cultura si sa è la chiave del progresso. E invece tutto e andato alle ortiche per qualche effimero ”like” in più. La speranza ora è che Sala e Fontana si ravvedano, trovino una scusa per il dietrofront in modo da salvare la faccia, e sottoscrivano un accordo prima che arrivino i francesi o gli spagnoli. Sperando che a Riad siano ancora interessati ad una intesa con questi signori. Anche se, da come mi è sembrato di capire girando da quelle parti, la farsa è il genere lirico meno apprezzato dai sauditi.