Artista sarà lei!

Milano

 

Scherza, Sergio Vanni, lui che preferisce definirsi un artigiano con un po’ di umorismo più che un artista. Le sue sono parodie, che consistono nel rifacimento di un’opera di un artista importante e famoso, corredate di una battuta, che dissacra ma che allo stesso tempo avvicina lo spettatore all’opera guidandolo a guardarla con leggerezza, umorismo, ironia. Originario di Rosignano (LI) e basato a Milano, Sergio Vanni ha iniziato 30 anni fa con un’idea semplice, ma geniale. Quella vitalità e purezza gioiosa che fanno passare tutto il resto in secondo piano, forse il segreto sta proprio in queste (assolutamente sue) parole: “l’importante nella vita è divertirsi. Divertirsi viene dal latino “divertere”, che significa cambiare direzione, cambiare consuetudine. Io mi diverto.”

Hai iniziato lavorando sulla poesia visiva e grafica. Cosa ti ha fatto cambiare direzione? «Una volta fui invitato a partecipare ad una mostra collettiva natalizia, eravamo una quarantina di artisti, a fare un’opera, poteva essere di qualsiasi tecnica, sulla natività. Presi una cartolina di un presepe, la incollai semplicemente sulla tela e aggiunsi al Gesù bambino un fumetto che diceva “Oro, incenso e mirra… oro, incenso e mirra…mai un trenino.” Quest’opera fu pubblicata da un giornale, fu venduta, quindi ebbe un certo successo. Fu la molla che mi fece capire che appunto sull’arte e con l’arte si poteva anche scherzare. Lì è cominciato questo percorso.»

Perché la scelta della parodia? «Credo che tutto il mondo dell’arte sia un mondo molto autoreferenziale, ingessato, volevo creare delle cose che facessero anche sorridere, non tanto dell’arte, ma con l’arte. L’umorismo è un materiale difficile da maneggiare. Una volta scrissi che era tutta colpa di Aristotele perché il secondo libro della Poetica di Aristotele, sul comico, è andato perduto, e quindi il tragico ha avuto sempre la prevalenza sul comico, ma penso che il comico abbia la stessa dignità del tragico. Per questo mi sono dedicato a questa attività di parodista, umorista. Vedo che la gente si diverte abbastanza guardando queste opere e si avvicina di conseguenza all’opera stessa, piacciono.»

A cosa pensi sia dovuto questo declassamento della comicità nella storia dell’arte? «Nell’arte spesso l’umorismo è stato usato. Solamente che la critica difficilmente passa un’opera come umoristica, preferisce parlare di dissacrazione, di atteggiamenti dadaisti. Nel momento in cui Duchamp dipinge la Gioconda con i baffi, fa un’operazione concettualmente importante, ma anche un’operazione di tipo umoristico, come può fare il bambino sui libri di storia. In opere di Cattelan, di Koons così come di tanti artisti io trovo questa vena ironica e di leggerezza, ma molto spesso quest’aspetto è sottaciuto.»

Se l’arte è linguaggio e forma di comunicazione, il tuo è un modo più immediato di entrare in contatto con lo spettatore. «Io in questo ci credo. Se uso una battuta che fa sorridere, si toglie l’opera dalla sua aurea di sacralità e si riconduce ad un rapporto che ci è più vicino. Se io posso sorridere di un’opera in un certo senso me ne approprio più facilmente e tolgo questa distanza spesso sacrale che magari sacra non è. È un’immagine sulla quale si può pensare, riflettere. Per cui è proprio un processo di avvicinamento rispetto ad un linguaggio più criptico.»

D’altronde è cambiato l’universo di rappresentazione dell’arte, insieme al senso stesso di rappresentazione. «Certamente. Tu pensa all’artista prima della fotografia, documentava la storia. Dall’avvento della fotografia in poi questo ruolo narrativo e documentarista dell’artista non c’è più e quindi l’arte si è spostata dall’osservazione dell’esterno a quella di una realtà interiore, immaginata. L’artista si sente anche più libero, perché se prima era legato ad un oggetto, oggi è totalmente svincolato e può raccontare attraverso colori e forme immaginarie un’emozione, un’impressione. È una liberazione in un certo senso.»

Forse lo spettatore invece rimane fuori non cogliendo questo spostamento. «L’atteggiamento è duplice: alcuni non capendo pensano abbia senso, altri non capendo pensano non abbia senso. La banalissima frase «lo so fare anche io» … il grande Bruno Munari diceva «se qualcuno ti dice ‘lo so fare anche io’ gli devi rispondere ‘non è vero che lo sai fare, lo sai rifare’.» Tutti sono capaci di tagliare una tela con taglierino, ma l’idea è stata di Fontana. Insomma oggi l’arte è idea e invenzione.»

Eppure tanti artisti si concedono molte ripetizioni, come risulta lampante alle fiere. «La sensazione del dejà vu, capita spesso nell’arte contemporanea. I grandi artisti sono 4 o 5 in un secolo. Poi c’è tutta una serie di artisti o sedicenti tali che si mettono sulla scia di qualcuno. D’altronde inventare un linguaggio non è da molti, è da pochissimi. Noi abbiamo avuto nel 900 artisti fondamentali che l’hanno fatto…Negli anni 50 Burri faceva i quadri con i sacchi sporchi, però era un modo di rappresentare la sua realtà, geniale, innovativo! Questi personaggi ai tempi non venivano compresi, mentre oggi hanno prodotto una scia di emuli. Trovare qualcosa di veramente nuovo nell’arte non è facile.»

Cosa delle tue origini toscane riporti nelle tue opere? «Beh la battuta, l’umorismo! La famosa beffa delle teste di Modigliani dell’84 nasce qui…. È rimasto uno dei più grandi scherzi del secolo, anche illustri critici sono caduti in questa trappola, contro le intenzioni degli autori che volevano solo fare uno scherzo.»

E adesso mi dicevi che stai lavorando su qualcosa di nuovo. «Ora sto facendo questa nuova serie di opere che sono dei semplici giochi di parole. Cerco di ridare dignità alla parola che in questo momento mi sembra molto umiliata. I linguaggi social, l’uso delle emoticon, rattrappiscono la parola. Vorrei con questi lavori ridare al linguaggio il suo enigma, il suo mistero, la parola è un mondo complesso che mi sembra che sia stato sempre di più compresso, ridotto. Ormai la politica non è più ragionamento, analisi o dialogo, è slogan, si vende come se fosse un prodotto. Lo slogan martellante convince chi lo recepisce. La parola è più complessa… vorrei proporre questa complessità, bellezza che la parola in sé contiene. Il linguaggio di successo oggi è quello di poche parole, semplici, quello che io chiamo linguaggio specchio. Quel linguaggio che parte dall’ascoltatore, si riflette nell’oratore e ritorna all’ascoltatore. Questo funziona.»

Il tuo lavoro vuole ridare alla parola il suo significato usando lo stesso approccio? «Ridare il suo significato ma anche il suo mistero… ci sono delle parole enigmatiche. La costruzione di un periodo o di una frase è complessa, ma è un patrimonio che non possiamo perdere, perché se perdiamo la capacità di usare la parola perdiamo la capacità di dialogo e quindi perdiamo una grossa fetta di comunicazione che invece è importante. Usare le parole non è facile, lo capisco, però bisogna lavorare in questa direzione, non nella semplificazione del linguaggio perché porta alla semplificazione del pensiero. Oggi mi sembra questo linguaggio ridotto sia una forma di semplificazione del pensiero.»