Perdita di definizione, lavori sfocati da un treno in corsa: un’arte anti eroica
Sfuggente a qualsiasi possibilità di definizione e in cerca di un equilibrio tra assenza e presenza, Alfredo Aceto arriva in finale al Talent Prize 2018 con una scultura che sembra continuamente scivolare via e dissolversi di fronte allo sguardo. Nel suo mondo non ci sono appigli a cui aggrapparsi o eroi da ammirare, né individualità date, ma il flusso della vita in cui non resta che barcamenarsi al meglio che si può. Di base in Svizzera, porta la sua arte tra Italia, Francia, Germania, Romania e Danimarca. Il suo è un percorso creativo che attraversa molteplici fasi di crescita, accompagnato da quell’umorismo che è chiave di lettura e di innescamento della sua insaziabile ricerca.
Come inizia il tuo percorso da artista?
«È iniziato con gli acquerelli e con quei blocchi di carta Canson incollati su tutti e quattro i lati. Faticosissimi da staccare».
E poi?
«E poi è successo ben poco perché continuo a comprare gli stessi fogli, la stessa marca e la stessa grammatura».
Hai già collezionato circa cinquanta mostre tra personali e collettive. Come ti senti in rapporto al sistema espositivo?
«Mi sento bene! Penso però che sia importante la felicità e il piacere che si trova nel processo di lavoro. Perché il modo in cui facciamo le cose è altrettanto importante di come poi queste possano apparire».
Cosa ti muove in fondo? Cerchi il successo nell’arte?
«Non cerco il successo ma cerco di adoperarlo. Successo e arte sono legati come responsabilità e potere. La responsabilità senza il potere che ne consegue crea un problema, così come il successo di un artista senza l’arte. Vedo nel successo un’opportunità come un’altra per poter condividere delle urgenze con più persone. Ciò che penso sia grave e malato è cercare il successo anziché cercare l’arte».
Che differenze hai percepito tra l’Italia e l’estero?
«Credo che sia una caratteristica Italiana quella di aver sempre visto nascere grandi progetti dal privato piuttosto che dall’istituzione».
È anche per questo che non sei rimasto?
«No, non c’entra nulla. Non sono partito per cercare fortuna o condizioni migliori; ero troppo piccolo per ragionare in quei termini».
Un pensiero sullo stato dell’arte in Italia?
«Ci sono artisti e curatori bravi che sono riconosciuti. Purtroppo gallerie e musei prediligono ancora programmi forsennatamente esterofili al punto che le istituzioni straniere fanno le prime mostre museali degli artisti italiani».
Come ti sei avvicinato alla scultura e come è cambiata oggi rispetto a quando hai iniziato?
«Qualcuno diceva che la scultura è quell’oggetto sul quale inciampi quando ti allontani da un dipinto per osservarlo. Questo non cambia».
E tu sei cambiato?
«Certamente no!».
Hai degli eroi?
«In senso lato! Guardo ad artisti che ritengo importanti per il mio lavoro come Rochelle Feinstein, Claes Oldenburg, Thomas Schütte, Emilio Prini e Carla Accardi».
Cosa senti di esprimere tu in quanto artista della tua generazione?
«Cerco di non guardare troppo cosa fa il compagno di banco; lo fa già mezzo mondo per metà del tempo».
Nella tua indagine quali sono i temi che ti ossessionano maggiormente?
«La perdita di informazioni, la perdita di dettaglio. La saturazione. La malinconia che ne scaturisce».
E poi l’opera d’arte che ne scaturisce: svuota o satura?
«Svuotata al suo interno, ma comunque in grado di restituire una forma se pur equivalente a un’altra».
Un tuo lavoro a cui sei particolarmente legato?
«Non mi affeziono molto agli oggetti».
L’arte è un oggetto?
«Talvolta».
Come nasce l’opera finalista al Talent Prize, Rozelor?
«Come è nata già è morta!».
Cosa ami della vita?
«Non prendere nulla troppo sul serio. E poi un barattolo di cuori di palma delicatamente scolati nel tombino di un’area di servizio e poi degustati sul sedile anteriore».
Cosa ti inquieta invece?
«Non essere preso sul serio».
C’è qualcosa in cui credi?
«Non credo molto alle questioni di autore o di intelligenza. Siamo figure sociali collettive il cui pensiero è frutto di scambi, di discussioni e di negoziazioni. Un tempo l’unica discriminante significativa era costituita dal contesto storico-temporale. Oggi, invece, non si può più attribuire un ruolo così esclusivo a geografia e cronologia».
Progetti futuri?
«Un’automobile scomparsa che sale su una rupe in una giornata di sole: ecco un’anticipazione del film horror sul quale sto lavorando attualmente. Per quanto riguarda i miei prossimi progetti non c’è da temere, perché per me il miglior lavoro è sempre quello avvenire. Continuano intanto le mie esposizioni in giro per l’Europa. A novembre ho presentato Azure personale alla galleria Dittrich & Schlechtriem a Berlino, mentre a febbraio Sequoia 07 all’Istituto Svizzero di Milano a cura di Samuel Gross».
Rozelor
Rozelor fa parte delle Transitional Sculptures. «Si tratta di sculture – spiega l’artista – che si interessano alla continua perdita di dettaglio, come se fossero osservate da un treno che viaggia ad alta velocità. Questi lavori – continua – esistono nello spazio come dei monumenti che non hanno nulla da omaggiare e che si interrogano sul loro proprio statuto di oggetto. La loro anti eroicità ci mette di fronte all’evanescenza dei particolari, rendendoci consapevoli dell’incapacità a tenerne traccia».
BIO
1991
Nasce il 29 marzo a Torino
2014
Conclude gli studi all’ECAL (École Cantonale d’Art de Lausanne)
2013
Espone nella mostra al Museo del 900 di Milano con Roberto Cuoghi e Milovan Farronato
2016
Frequenta la Msa (Mountain School of Art) a Los Angeles con Piero Golia
2018
Espone a Doc! in Parigi con Cédric Fauq
info: alfredoaceto.it