Lorenzo Puglisi

Lorenzo Puglisi è a Milano, per un doppio evento. Il primo in via Senato, allo Studio Guastalla Arte Moderna e Contemporanea insieme a Prearo Edizioni con un volume curato da Valerio Dehò, il secondo al Museo Messina in coppia con Omar Galliani. Allo Studio Guastalla 15 opere rappresentano il lavoro degli ultimi anni, in cui il codice artistico dell’artista ha definito una personale autonomia e identità. Nei suoi lavori, spesso di grandi dimensioni, Puglisi fa entrare la grande tradizione figurativa del passato, riproponendo celebri iconografie come L’Ultima Cena leonardiana e il Narciso caravaggesco. Nelle sue grandi tele lo sfondo nero rappresenta probabilmente insieme il luogo e il tempo in cui si muovono le figure, il pretesto e la causa dei loro movimenti. Nello spazio emergono profili e silhouette magmatiche, bianche, trasfigurate, forse in transito, in una dimensione che oscilla tra il possibile e l’impossibile e tra il visibile e l’invisibile. 

Si è conclusa da poco un’esperienza bolognese alla Labs Gallery e adesso un nuovo evento a Milano nello Studio Guastalla Arte Moderna e Contemporanea. Di quale progetto si tratta?
«La mostra ha l’ambizione di presentare la summa degli esiti (se mai ce ne sono stati!) del mio modo di dipingere, lavori grandi, medi e piccoli, tutti accomunati da un’insistente ricerca di armonia e perfezione formale, raccolti anche in un libro della collana Atlanti di Giampaolo Prearo Editore; in esposizione dipinti degli ultimi 3 anni, tutti lavori a cui tengo molto, che hanno significato per me un piccolo risultato, una piccola, temporanea vittoria sulla materia della pittura. Penso possano dare una chiara percezione della visione della realtà che ricerco».

La monografia sul tuo lavoro edita da Prearo Editore ha il sapore di un sostanziale traguardo. Quanta vita e arte c’è dentro?
«Il libro si intitola Lorenzo Puglisi come naturale, ma il sottotitolo è 15/18, e posso assicurare che non si tratta solo degli anni in cui ho realizzato i dipinti. Per me si è trattato, ed è, e sarà ancora, una lotta, una vera e propria guerra, con me stesso innanzitutto, con la materia pittorica dell’olio su tela, tavola o carta, e poi anche con il mercato, le gallerie, e tutta la sovrastruttura necessaria e fondamentale di critica, collezionismo, musei che esula dal lavoro in sé. Tutto quel mondo esterno alla pratica della pittura che è il solo in grado di certificare il ”valore” intrinseco ed estrinseco di un dipinto, una difficoltà che è direttamente proporzionale al grado di profondità e/o novità del percorso intrapreso. Quindi per rispondere alla tua domanda, molta della mia vita e tanta pittura, l’arte è per i grandi uomini che ci hanno preceduto e lasciato capolavori da tutti riconosciuti».

A Milano raddoppi la tua presenza insieme all’artista Omar Galliani.
«Il 23 maggio inauguriamo al Museo Messina una mostra dal titolo Omar Galliani | Lorenzo Puglisi, visioni di luce e di tenebra, curata da Maria Fratelli e da Raffaella Resch e prodotta dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Milano. Qui, nella chiesa sconsacrata di San Sisto, dove l’ampio spazio lo consente, espongo alcuni lavori di grandi dimensioni, una Crocifissione di tre metri e mezzo di altezza e una Natività altrettanto ampia; è un’occasione  per poter far vedere in parallelo alla mostra personale da Studio Guastalla alcuni esiti pittorici su grande scala e anche e soprattutto un momento di riflessione e confronto con Omar, in uno spazio che considero con rispetto dal momento che non penso si possa sconsacrare nulla, semmai, in rarissime occasioni, penso sia possibile rendere omaggio alla sacralità».

Nelle tue opere regna, forse solo apparentemente, il colore nero. Che cosa rappresenta questo colore in generale per te e cosa rappresenta nella fattispecie una tela nera per te?
«Il nero è sempre una miscela, un miscuglio di oscurità, bruni, rossi, terre è la superficie ove scolpire delle pitture che mi possano interessare, le mani e i volti escono dal nero perché è lì che mi si manifesta la vita dell’altro, degli esseri umani, talvolta anche la mia, quello che lo spettatore, unica vera ragione per un dipinto, percepisce (se alcunché percepisce!) è per me sempre interessante e nuovo. Potrei dire oscurità perché senza non vi può essere luce. Oppure il contrario».

L’indefinibilità dei volti e dei tratti anatomici delle figure che dipingi possono indurre a pensare che siano in velocissimo transito di fronte a noi, che si stiano muovendo in una temporalità rapida e violenta.
«C’è senz’altro un movimento materico forte, testimone degli esiti della grande pittura recente del ‘900 e del movimento interiore di pensieri, emozioni e quant’altro mi è talvolta dato di cogliere in me. Riguardo alla temporalità non ho alcun potere, certamente quello che da solo conta è il momento dell’osservatore, quando qualcuno guarda il dipinto».

L’arte è stata per secoli figurativa arrivando pian piano a una sintesi così serrata da scoprire l’astrazione. La tua pittura può ambire ad essere un ponte tra figurativo e astrazione?
«La grande difficoltà e bellezza, in caso di riuscita, è trovare una pittura che abbia un segno non convenzionale, materico, astratto, all’interno del canone naturale della visione delle cose, dell’uomo, della vita, come fecero grandi pittori, come fece Rembrandt. Picasso in una sua esagerazione (si narra), diceva che è difficile dipingere il visibile, impossibile dipingere l’invisibile”. Bacon parlò molto del cercare una misura tra figurazione e astrazione; io credo si riferisse appunto al segno, altri credono e tentano diversamente; mi vengono subito in mente i dipinti più recenti di Adrian Ghenie esposti in questi giorni da Ropac a Parigi. Dare agli intellettuali e quindi a galleristi, collezionisti, amatori quello che desiderano e che concettualmente credono giusto e doveroso esito, secondo me è una strada di cui ci si può pentire qualche decennio o una o due vite dopo: una volta spesi i soldi e spenti i riflettori. Penso che la Grande pittura (non di certo la mia), debba scuotere, impressionare, svegliare dal torpore comodo del rassicurante, del giusto e doveroso esito. Penso che debba spiazzare, colpire con forza e a ragion veduta, con sostanza, significato e la forza dell’inatteso, del rinnovato con una bellezza non fine a se stessa, non puramente estetica e quindi solo esteriore».

È corretto vedere nella tua opera tanto dell’arte di Francis Bacon?
«Abbiamo certamente lo stesso bianco negli occhi, entrambi i capelli! È stato l’ultimo grande pittore della storia, come non tenerne conto, come non passargli attraverso, cecità o vigliaccheria possono ignorare l’opera, l’arte, ecco qui va bene, l’arte di Bacon che a sua volta non ignorava l’arte, va di nuovo bene, di Picasso, e la sua guardava a quella di Poussin, Pouvis de Chavanne e così via in tutta l’arte. La mia è solo pittura, un tentativo caparbio ma pur sempre solo un tentativo di pittura. Comunque amo spesso dire che se facessi il ballerino e mi dicessero ”balli molto come Nijinsky” non mi offenderei».