Progetto Palermo

Pochi giorni fa sono stati annunciati gli artisti che parteciperanno a Manifesta 12,  in programma a Palermo dal 16 giugno al 4 novembre. Nell’attesa vi proponiamo direttamente dalle pagine di Inside Art #113, il nostro servizio sulla manifestazione.

Veniamo dal secolo delle grandi manifestazioni. Tra la fine del Novecento e i primi anni Duemila, abbiamo assistito al proliferare di biennali, da Shanghai a Honolulu. Un fenomeno che se da un lato denota la necessità di decentralizzare il dibattito artistico e aprire l’arte a nuovi contesti sociali e di mercato, dall’altro ha portato a una massificazione dell’offerta che, nel più dei casi, si è tradotta in modelli fieristici poveri di concetto. Da qualche anno a questa parte, anche le manifestazioni più storicizzate hanno preferito anteporre a un approccio estetizzante, l’approfondimento della ricerca. Sono un esempio La Biennale di Venezia del 2015, oppure Documenta14 che l’anno scorso ha fatto tappa ad Atene confrontandosi con le complessità di una città segnata dalla crisi. Manifesta, che nomade è dalla nascita, si è sempre posta come obiettivo quello di indagare le trasformazioni globali, proponendo modelli curatoriali contro ogni tipo di spettacolarizzazione. Non a caso per Palermo, quest’anno sede della manifestazione, è stato chiesto a OMA, studio di Rem Koolhaas, di condurre un’indagine preliminare sulla città. «Uno studio – spiega Ippolito Pestellini Laparelli, architetto di OMA e tra i mediatori creativi di Manifesta – che, sotto il nome di Palermo Atlas, costruisce le basi della proposta curatoriale, sviluppata da un team interdisciplinare, invece di definirla in astratto per poi calarla nella città». Questo modello, che si propone di avere un impatto anche a lungo termine su Palermo, potrebbe imporsi nelle prossime edizioni, prima fra tutte Marsiglia, tappa prevista per il 2020. 

Che cosa è emerso da Palermo Atlas?
«Il documento che abbiamo realizzato è stato il punto di partenza non solo per noi, ma anche per gli artisti e i partecipanti che abbiamo chiamato a lavorare. Quello che fa è cercare di raccontare attraverso interviste, mappature diagrammatiche, rappresentazioni fotografiche, come la città sta registrando i cambiamenti globali. Per esempio, molti non sanno che la più grande comunità che risiede a Palermo è srilankese o che oggi si potrebbe parlare della Palermo araba-normanna, tanto quanto di quella Tamil. Questi dati sono stati registrati negli spazi in cui i fenomeni hanno luogo che poi sono diventati in molti casi le location di Manifesta. Per questo dico che è la città stessa il progetto, perché tutti questi luoghi hanno in sé i significati che vogliamo esplorare attraverso la biennale nel suo complesso».

Perché Palermo in questo momento rappresenta una scelta significativa?
«Per diverse ragioni Palermo è lo scenario in cui oggi convergono le crisi e i fenomeni della contemporaneità. Da una parte la città si sviluppa a velocità elevatissima, dall’altra si confronta con la sfida del futuro per il bacino del mediterraneo e, a larga scala, per l’Europa: la gestione del controllo dei confini. Un ruolo importante in questo senso l’ha avuto l’attuale amministrazione, il sindaco Leoluca Orlando nel 2015 ha lanciato la carta della città con il riconoscimento ufficiale della mobilità come diritto inalienabile. Sia nel presente che storicamente, Palermo è stata luogo di scambio di culture e persone ma anche di dati, di mezzi, di traffici legali e illegali, di specie di animali e piante. Per la sua posizione geografica, poi, vive i cambiamenti climatici del mediterraneo. Questa convergenza di fattori fa sì che rappresenti un incubatore delle problematicità globali. È il paradigma ideale per raccontare questo momento storico, e per farlo con un’attitudine positiva. Palermo è costruttiva rispetto a questi problemi, non distruttiva».

Nell’era dell’antropocene che messaggio comunica il Giardino Planetario, scelto come tema della manifestazione e com’è stato interpretato dagli artisti?
«La metafora del pianeta come giardino, che appartiene al botanico francese Gilles Clément, è solo uno spunto, ormai sono passati vent’anni dalle sue teorie. In uno scenario post-antropocentrico, pervaso dalla tecnologia, l’idea di natura è cambiata, si è sintetizzata. Il nostro è un giardino anche tossico, inquinato, non è più il giardino romantico di Clément. I partecipanti alla biennale, artisti, attivisti, architetti, geografi, filmaker, giornalisti, botanici, agronomi, politici, affrontano il tema da punti di vista diversi, trattando Palermo come oggetto di ricerca. Un duo di artisti, per esempio, sta lavorando su un archivio di tecniche di irrigazione a secco, un altro gruppo invece racconta in maniera teatrale la crisi dei rifugiati, posizionandola in un contesto di relazioni più ampio che va dalla primavera araba alla chiusura dei confini del Mediterraneo. La chiave di lettura non è l’output (l’Italia è piena di masterplan che falliscono), ma il fatto che la biennale diventa una specie di catalizzatore di queste operazioni. Allo stesso tempo, però, possono anche nascere progetti che lasciano sul territorio qualcosa di rilevante. Stiamo cercando di uscire dal paradigma di una biennale d’arte contemporanea e di avviare una vera collaborazione con la città, utile per esempio per risignificare diversi luoghi, rendere accessibile un’area di una costa che è tossica e per tanti anni è stata inaccessibile, rifunzionalizzare una rovina moderna di un non-finito, costruire un giardino in un quartiere problematico come lo Zen».

Alla base del discorso sembra esserci un’attitudine più in linea con il concetto di decrescita che di accelerazione sfrenata.
«Diciamo che ovviamente Manifesta a grande scala indaga ciò che è rimasto della globalizzazione. Il Giardino Planetario non ha a che vedere con specifiche posizioni, modelli di decrescita o accelerazionismo. Cerchiamo, senza prendere una posizione precisa, di sviluppare degli strumenti per mediare con la globalizzazione accelerata da un lato, con la decrescita dall’altro. Manifesta è a metà tra le due facce di una medaglia, non c’è una lettura unilaterale».

L’anno scorso Documenta si è svolta in parte ad Atene, un’altra città del Mediterraneo attraversata dalla crisi. Il titolo era Learning From Athens. Che cosa abbiamo imparato da Atene? E che cosa Atene può aver imparato da una manifestazione come Documenta?
«È difficile lavorare in un luogo complesso come Atene e in generale come il Sud Europa. È anche complesso esprimere un giudizio, non conoscendo i meccanismi che si sono sviluppati dietro al progetto Documenta, i numeri delle persone coinvolte, le difficoltà burocratiche. Un conto è lavorare a Kassel con budget molto alti si possono mettere in funzione meccanismi che hanno un impatto forte, tridimensionale sui luoghi. Noi non facciamo niente di tutto questo, non abbiamo neanche le risorse ma, partendo da ciò che abbiamo, cerchiamo di lasciare delle tracce sul territorio. Almeno il 70% dei progetti sono prodotti ad hoc per Manifesta. Sono coinvolti non più di 45-50 artisti, per evitare che diventi eccessivamente grande e poco controllabile. Meglio fare qualche progetto in meno ma approfondirlo il più possibile».

MANIFESTA 12
Palermo ospita dal 16 giugno al 4 novembre la dodicesima edizione di Manifesta, sotto la direzione di Hedwig Fijen. Prima tappa della biennale è un lavoro di indagine sulla città, condotto dallo studio di architettura OMA, che ha preso il nome di Palermo Atlas. I risultati della ricerca sono stati il punto di partenza per un progetto curatoriale sviluppato da un team interdisciplinare composto da Bregtje van der Haak, giornalista e cineasta olandese, Andrés Jaque architetto spagnolo, Ippolito Pestellini Laparelli architetto e partner di OMA, Mirjam Varadinis curatrice svizzera. Il Giardino Planetario. Coltivare la coesistenza è il concept scelto per la rassegna, metafora presa in prestito al botanico francese Gilles Clément, che è spunto per confrontarsi con i cambiamenti climatici, temporali e sociali della contemporaneità. Manifesta si svolgerà in diversi luoghi della città attorno a quattro aree tematiche: Garden of Flows, Out of Control Room, City on Stage e Teatro Garibaldi.

IPPOLITO PESTELLINI LAPARELLI
Ha studiato architettura al Politecnico di Milano e alla TU Delft. Lavora per OMA dal 2007 e dal 2014 è partner dello studio. La sua indagine è incentrata sulla conservazione, scenografia e curatela. I suoi progetti recenti includono la ristrutturazione del Kaufhaus des Westerns a Berlino, ancora in corso, e Panda, una ricerca e mostra per la Triennale di Oslo nel 2016, che esplora l’impatto della condivisione di piattaforme economiche. Pestellini Laparelli è anche responsabile di diversi progetti per Fondazione Prada.

Info: m12.manifesta.org

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