Arte dopo il fallimento

La pubblicazione è parte dell’evento In chat con IOCOSE

IOCOSE sono Paolo Ruffino, Matteo Cremonesi, Filippo Cuttica e Davide Prati.
Il manifesto è stato pubblicato originariamente in Ghidini, M. and Kelton, T. (2015), Silicon Plateau Vol-1, T.A.J. Residency and SKE Projects, Bangalore, India

La traduzione italiana è a cura del Colorificio

Due giustificazioni
Questo scritto ha lo scopo di fornire due ampie giustificazioni. Innanzitutto, intende spiegare perché, come collettivo, abbiamo deciso di trascorrere un periodo di residenza presso Bangalore (India). La città è, senza dubbio, lontana rispetto a quelle aree geografiche dove solitamente presentiamo il nostro lavoro (l’Europa e il cosiddetto Mondo Occidentale, perlopiù). In secondo luogo, vogliamo giustificare la nostra posizione nel contesto della produzione artistica contemporanea. Quanto segue è un diario del nostro viaggio e, al contempo, un manifesto della nostra pratica. Le due argomentazioni concorrono a giustificare il nostro posizionamento e il nostro ruolo nel mondo.

Riflettendo sulla nostra produzione artistica, vogliamo definirne lo stile e l’ethos all’interno di quello che chiamiamo provvisoriamente Post-Fail. Come nell’etichetta Post Internet, anche in questo caso il prefisso ”post” assume contemporaneamente differenti significati. La nostra arte, in primo luogo, orbita attorno al momento successivo al fallimento delle narrative teleologiche dello sviluppo tecnologico, intese in entrambe le visioni: quelle pessimistiche o quelle entusiastiche. Riteniamo che, alla fine, le narrative utopiche e distopiche deluderanno, lasciandoci con realtà decisamente più triviali e varie. Per esempio, recentemente ci siamo avvicinati ai droni e ai veicoli senza pilota. Si tratta di tecnologie di uso piuttosto comune, vendute anche come giocattoli. Nondimeno i droni sono presentati dagli entusiasti e nelle pubblicità come una delle principali tecnologie del prossimo futuro: ci stiamo muovendo verso un mondo in cui consegne e sorveglianza visiva, riprese cinematografiche e guerre, si svolgeranno solo grazie ai droni. Abbiamo preferito concentrarci non tanto sulla promessa, quanto sull’attualità: possiamo immaginare che quanto ci viene detto (per lo più da coloro che vendono queste tecnologie) non si realizzerà, o certamente non attraverso un processo uniforme e omogeneo.

In secondo luogo, Post-Fail significa che il nostro lavoro dovrebbe essere riconosciuto come un risultato del fallimento delle Post-Teorie delle ultime decadi. Molte di queste hanno provato a rendere conto dell’arte contemporanea come condizione Post (che secondo quanto si dice dovrebbe accomunare tutti), dimenticando e celando le contraddizioni e le complessità del presente, del punto geografico e temporale in cui erano state formulate. Vogliamo, pertanto, investigare la complessità del presente e il nostro coinvolgimento nella produzione di un senso di questa stessa nozione di presente. Riteniamo sia difficile non considerare che quanto accade si realizzi in un tempo specifico e che anche i discorsi sul futuro o sul passato siano influenzati da un punto di vista temporale, culturale e geografico specifico. Post-Fail significa, come sarà dimostrato, avere coscienza della temporalità che affermazioni e corpi ricordano e incorporano costantemente.

Infine, Post-Fail potrebbe significare, in senso ironico, che noi, IOCOSE, viviamo e lavoriamo in costante stato di fallimento comunicativo. In quanto divisi in tre differenti città e in contatto tramite e-mail, documenti condivisi, sistemi di cloud storage e tecnologie VOIP, abbiamo accettato il fallimento della comunicazione come parte del nostro processo di lavoro. Siamo divenuti familiari e intimi con il fallimento e lo teniamo in considerazione per poter comprendere appieno la nostra stessa pratica. Internet non è solo parte della nostra vita quotidiana, è una condizione necessaria per l’esistenza di IOCOSE: senza connessione internet noi come collettivo non esisteremmo. Siamo IOCOSE nell’era di Internet, non dopo (dobbiamo comunicare tra di noi perché le cose succedano) e non prima (non possiamo lavorare insieme senza una connessione Internet). La nostra arte ha origine dagli equivoci, dalla lentezza e dalle interruzioni che la comunicazione a distanza porta con sé.

E allora, perché Bangalore? Perché una città del genere può essere interessante nella riflessione sulla teorizzazione del Post-Fail? Sosteniamo che Bangalore sia un caso eccellente per poter capire e provare l’importanza di vivere, pensare ed esistere dopo il fallimento. A Bangalore i momenti del presente in cui vengono enunciate e narrate le promesse sul futuro della città importano più d’ogni altra cosa. Il presente di Bangalore è determinato da una specifica idea di futuro, lo si vede nello sviluppo architettonico e urbanistico e attraverso l’introduzione delle attività terziarie nella città. Come abbiamo immediatamente percepito, è questa stessa idea di futuro che genera contraddizioni e disuguaglianze. Sorprendentemente la maggior parte di questo sviluppo è sostenuto nel nome delle aziende che investono in tecnologie informatiche (IT). L’economia generata da Internet non è solo parte costituente della città di Bangalore, ma è il motore che permette alla città di giungere a quel futuro promesso. Come Nair (2005) scrive nel titolo del suo testo, Bangalore offre la ”promessa della metropoli”. Per noi, Bangalore è un’occasione perfetta per poter studiare il presente di queste promesse di sviluppo tecnologico ed economico, e per ricordarci come queste promesse contino, siano materia fatta di vetro e acciaio, muovano persone, soldi e cavi nel mondo in cui viviamo oggi. Con la nozione di Post Fail proveremo a rispondere a tutto questo.

Una città nella città
Ciò che ha reso interessante ai nostri occhi Bangalore, non è stata la città in sé, bensì quella città nella città che si trova a Bangalore. Questa città-nella-città è conosciuta come Electronic City, o E-city. L’E-city è sorta fin dai primi anni Ottanta, ma è cresciuta esponenzialmente solo nelle ultime due decadi. Si può dividere in tre aree, chiamate Fase 1, 2 e 3, rappresentazioni delle successive occasioni di espansione della città. Questa ospita palazzi e uffici delle più importanti aziende di tecnologia informatica del mondo. L’E-city vuole fornire a queste aziende un luogo sicuro, separato, dove poter collocare il proprio commercio rimanendo lontani dai problemi (il traffico, lo smog, etc.) che Bangalore presenta.

Se Bangalore, con l’eccezione dei suoi quartieri più ricchi, è una città povera, lenta, sporca, vecchia e rumorosa, l’E-city è, al contrario, ricca, veloce, pulita, nuova e silenziosa. Bangalore è caotica, mentre l’E-city è efficiente. L’E-city e le aree circostanti sono luoghi dove ciascuno, stando a quanto riportano le insegne pubblicitarie nelle periferie di Bangalore, vorrebbe vivere. Il suo è uno stile architettonico pienamente occidentale, ambizioso e lussuoso. Uno dei quartieri costruiti intorno alla E-città si chiama Melrose Place, e riprende – imitando – le case dell’omonima serie televisiva di fama internazionale.

Se Bangalore è piatta con elementi che si estendono ben al di là dei confini ufficiali sulle mappe della città, l’E-city è presentata come ”elevata”, un’elevazione che è creata e costantemente ricordata nelle pubblicità delle agenzie immobiliari. ”Vivere come in California” è un modo per distinguersi – come ci ricordano i cartelloni pubblicitari. Il processo di auto-innalzamento non è solo fisico (un appartamento in un grattacielo) ma anche spirituale, significa essere lontano dal resto del mondo. Questo concede la possibilità di un successful living, per citare il famoso slogan pubblicitario della Diesel.

Molti altri interventi architettonici nella città insistono sull’opposizione tra verticalità e orizzontalità. I palazzi attorno all’E-city, sviluppati per ospitare chi lavora in quelle aziende, raggiungono il cielo o perlomeno provano ad allontanarsi dal suolo. Secondo una leggenda metropolitana (sentita più d’una volta mentre eravamo lì) quando erano state gettate le prima fondamenta dell’E-city, un manager importante del sistema legato alle aziende informatiche confessò ai collaboratori del sindaco di Bangalore che la eccessiva vicinanza con i locali avrebbe danneggiato seriamente la crescita di un’economia tecnologica in quell’area. Infatti, egli suggerì esplicitamente di costruire un sopraelevata per connettere il centro città con l’E-city, così che il viaggio verso quel nuovo quartiere sarebbe stato più rapido. Soprattutto, disse che non si poteva sperare di accogliere leader mondiali se, nel tempo tra la sveglia e l’arrivo a lavoro, fosse stata ricordata loro la povertà delle persone intorno. La sopraelevata venne decisa come soluzione per allontanare i lavoratori e gli ingegneri dell’E-city dal cittadino medio di Bangalore. L’amministrazione cittadina iniziò, immediatamente dopo questo incontro, la costruzione di questa autostrada: un piccolo-grande mostro architettonico che attraversa l’intera città e dimostra come l’efficienza della produzione si può combinare con una efficiente discriminazione di classe.

La sopraelevata di Bangalore, conosciuto anche come strada di Hosur, fa parte dell’estesa Autostrada Nazionale 7. Questo connette l’area di Silk Board con l’E-city attraversando i quartieri restanti, scavalcandoli. È costato quasi 70 milioni di rupie, non troppo, ma abbastanza per tenerne i cittadini meno abbienti fuori. In circa dieci minuti permette di attraversare la città, altrimenti, a causa del traffico e della pessima condizione delle strade, il tempo impiegato sarebbe di circa un’ora. È lungo circa 10 Km ed è stato inaugurato nel 2010, meno di cinque anni fa.

La sopraelevata sorge dal sogno di rendere il trasporto il più tranquillo e veloce possibile, eliminando conseguenze non previste. In modo sorprendentemente analogo, le aziende che hanno sede nell’E-city basano il loro lavoro sulla possibilità di comunicare con gli uffici in California, Europa ed Asia, attraverso la trasmissione di dati, con il rischio che questa sia in qualche modo alterata da rumori di ogni sorta. È facile disegnare un paragone tra le modalità di lavoro dell’E-city e la sopraelevata: come i ”leader globali” dell’E-city mantengono il loro ruolo non contaminato durante il giorno, così il loro lavoro prodotto nella E-città deve essere inviato o ricevuto senza che ci siano danneggiamenti di alcun tipo.

Non è una coincidenza che l’E-city sia estremamente pulita. L’entrata all’area degli uffici è circondata da un cancello e l’accesso è riservato ai lavoratori e ai loro membri familiari. Tuttavia, è possibile vedere dall’esterno come tra gli edifici degli uffici ci siano spazi verdi con fontane, vialetti e alberi. Nessuna di queste cose si trovano nel resto della città.

In ogni caso, è piuttosto chiaro che a Bangalore Internet ha ancora importanza. E tuttavia è proprio Internet, e in particolare l’economia legata alla tecnologia delle informazioni, a generare in questa città uno sviluppo commerciale visibile nell’architettura e nella spartizione delle varie classi sociali nelle aree della città. Internet modella la forma della città di Bangalore, cambia i sogni e le aspettative delle popolazioni. I sogni associati con la rivoluzione digitale di Bangalore hanno a che fare con l’attesa di uno stile di vita californiano pulito, tranquillo e fluido, una possibilità che può essere raggiunta solo attraverso l’innalzamento e il distaccamento (muovendosi su di una sopraelevata, vivendo in un grattacielo, lavorando in un ufficio e così via).

Del resto, le contraddizioni che si trovano a Bangalore sono profonde quanto quelle che si possono trovare nella società europea, dove noi quattro siamo nati, cresciuti e dove attualmente viviamo. Tuttavia, qui queste differenze sono immediatamente visibili ai nostri occhi estranei. Basta osservare la configurazione urbanistica della città per vedere come le aziende IT abbiamo ridisegnato la città. Buona parte dello sviluppo di Bangalore è guidato dall’E-city. A Bangalore, Internet non è una cosa nuova, ma produce incessantemente nuove autostrade, nuovi grattacieli e nuove comunità chiuse.

Il problema con le cose nuove
È impossibile non mentire sul futuro e ciascuno mente su questo a proprio piacimento (Naum Gabo, citato da Barbook e Cameron, 1996)

Nel saggio L’Ideologia Californiana, Barbook e Cameron hanno giustamente mostrato come lo sviluppo di un’economia basata sulle tecnologie legate a Internet sia lontano dall’essere un cambiamento economico e tecnologico: rimane legato, aggrovigliato tra affermazioni ideologiche che sono state alla base di un nuovo genere di liberalismo che mettono l’individuo, e una certa idea di libertà personale, al proprio centro.

Prodotta a partire da una certa visione del futuro, questa ideologia appare orientata verso una condizione collettiva futura in cui ciascuno, da ogni dove nel mondo, sarà in grado di esprimere se stesso grazie alle tecnologie digitali online. Tuttavia, come commentano gli autori, i futuri immaginati hanno una forte forza ideologica perché dimenticano la parzialità dell’autore stesso. Mostrando un possibile futuro scenario, vengono immaginate strategie persuasive riguardo a cosa si debba fare in questo presente, influenzando così l’economia politica attuale. Così è accaduto a Bangalore (solitamente definita dagli stranieri come la Silicon Valley dell’India) dove è stata usata una specifica narrativa sul futuro per rafforzare un’economia neoliberista fondata sugli investimenti infrastrutturali.

La narrativa del futuro che sta disegnando la città di Bangalore, suggerisce – ad esempio – che il viaggio degli impiegati dell’E-city dovrebbe consistere in un volo sopra il resto della città tramite mezzi specificatamente costruiti con questo scopo, come la sopraelevata. E possiamo comparare questo con argomenti simili che sono stati proposti per guidare e manipolare le politiche del cambiamento nell’immediato presente. Pensiamo al fenomeno dei droni, il fatto che spesso ci viene suggerito che presto consegneranno pacchi direttamente a casa nostra ci spinge a sostenere che il loro uso debba essere liberalizzato immediatamente (di modo da far sì che le compagnie di sorveglianza e la polizia urbana possano velocemente diventare familiari con questo tipo di tecnologie nelle nostre città). Ci viene anche detto che nel futuro ogni movimento del nostro corpo sarà monitorato e tracciato per prevenire i problemi di salute, pertanto tecnologie che si muovono in questo campo devono essere finanziate e valutate sul mercato fin da ora, in modo da permettere al futuro di realizzarsi. Coloro che ci raccontano queste storie sembrano personaggi neutrali, a volte supportati da ricerche in qualche modo scientifiche a difesa delle loro tesi (i TED Talks sono un esempio eccellente di questa retorica, secondo cui sono le informazioni e i dati a garantire una visione trasparente del futuro). L’apparente neutralità di questi discorsi sul progresso tecnologico del futuro incoraggia cambiamenti imminenti, cambiamenti che sono lontani dall’essere neutrali e influenzano le vite dei più.

Bangalore è un esempio perfetto di futuro che accade nel presente, con i suoi effetti tangibili. La linearità del progresso tecnologico, economico e sociale è illustrato da attori specifici che hanno specifici interessi. L’idea di un post-qualcosa lavora in un modo del tutto simile. Come atteggiamento teoretico, il post-qualcosa ci racconta la vicenda di uno sviluppo storico e di un immaginario futuro verso il quale un certo numero di persone fanno rotta. Qualsiasi post-qualcosa, che delinea una narrazione storica lineare di relazioni causa-effetto, immagina il tempo come un chiaro percorso progressivo, dal passato verso una condizione futura.

Il problema con il Post-Internet
Tutte le riflessioni intorno al post-qualcosa devono essere interpretate all’interno di una critica politica e dal momento in cui siamo artisti, vogliamo contestualizzare la nostra presenza e ruolo nel contesto della produzione artistica contemporanea in relazione ad un altro post-qualcosa, il Post-Internet.

Possiamo ritenere come punto di partenza il testo influente di Artie Vierkant The Image Object Post-Internet. Qui il Post-Internet è definito come ”il risultato di un momento contemporaneo: derivante direttamente da un’autorialità onnipresente, dallo sviluppo della fruizione delle opere d’arte come valuta, dal collasso dello spazio fisico in una rete culturale, e dall’infinita riproducibilità e mutabilità dei materiali digitali”. Sembra delinearsi una chiara comprensione del momento contemporaneo. Internet è dato per scontato in questo contesto, viene considerato come qualcosa di certo che ha pervaso la vita di generazioni. L’idea dell’autore si deve adattare alla nostra percezione e alla produzione artistica in questa nuova condizione in cui tutti possono condividere e diffondere, offuscando la distinzione tra le immagini e l’oggetto in uno scenario in cui l’immagine dell’opera d’arte è, a tutti gli effetti, l’opera d’arte.

Allo stesso modo, David Joselit, in After Art, presenta ciò che egli ritiene essere il modello contemporaneo per la produzione e fruizione delle immagini. L’attuale condizione ha mutato il giudizio dell’arte e delle opere, dice l’autore. Il testo inizia con una dichiarazione di Donald Rubell, collezionista, rilasciata al New York Times. Rubell dice che ”le persone stanno iniziando a comprendere che l’arte è una valuta internazionale”. Questa affermazione piuttosto generica non è criticata da Joselit, ma è utilizzata invece come la radice logica di un nuovo modo di fare arte: ”quel che risulta dopo ‘l’era dell’arte’ è un nuovo tipo di potere che l’arte acquista attraverso i suoi formati eterogenei”.

Secondo Jesse Darling (e Nicholas Mirzoeff) invece il post nella dizione di Post-Internet indica che l’arte arriva nel momento in cui vi è ”la crisi di” Internet, e non dopo. Sempre Darling sostiene che ”ogni artista che lavora oggi è un’artista post-internet” (Darlin 2014).

Nondimeno, il Post-Internet può anche essere interpretato in modo diverso. Il prefisso Post può anche significare, forse più semplicemente, ”fare arte dopo esser stati online”, come ha proposto Marisa Olson nella formulazione originale dell’etichetta Post-Internet (Cornell 2006). Il Post-Internet può anche essere visto, più in generale, come integrante le nuove forme di produzione che coinvolgono le ricerche artistiche iniziate nel movimento della net art, che vuole evitare di replicare le logiche narrative della progressione storica – con il costo di essere accettato a maggior fatica dal mercato dell’arte (Quaranta 2015). Ciò su cui vogliamo insistere è che gli scritti degli autori come Vierkant, Joselit e Darling costruiscono delle narrative universali del tempo e del progresso tecnologico. Di più, gli autori menzionati non riflettono sulla pluralità delle cose che Internet permette, piuttosto riflettono su cosa Internet dovrebbe essere. Appare ovvio, per esempio, che l’arte è una valuta per persone come David Rubell, e probabilmente per qualcuno dei suoi amici, ma per il resto del mondo non lo è. In altre parole, le riflessioni riguardo chi siamo e dove siamo ora, cosa stiamo facendo, questi punti di vista del senso comune rispetto alla fruizione dell’arte e dei media nascondono il fatto che qualcuno racconti queste storie, e che questa narrazione è implicata in uno scenario politico, culturale ed economico che è ben al di là dall’essere ovvio, o dato.

Ciò che vogliamo dimostrare è che il Post-Internet come movimento, vario e complesso, lavora soprattutto per la critica d’arte (specialmente in quei casi in cui è presentato anche per i suoi limiti teoretici). Ciò che invece è preoccupante per noi, è come le teorie sul Post-Internet sembrino derivare da una comprensione elementare su come è il mondo, come funziona e come noi viviamo in esso. Certamente, la logica del senso comune è utile quando cerchiamo di rendere le cose semplici e accessibili alla nostra comprensione. Si dà il caso, tuttavia, che in queste condizioni, noi preferiamo le incomprensioni: i fallimenti, le delusioni, ciò che complica le aspettative su come Internet, le tecnologie e gli esseri umani si stanno comportando, o dovrebbero comportarsi.

Per queste ragioni siamo più vicini ad affermazioni meno autoritarie e prospettive meno generalizzanti. Bangalore mostra che Internet non è qualcosa che tutti condividiamo, né che condividiamo allo stesso modo. Internet genera differenze per persone differenti, a seconda di dove essi vivano, di quale sia la loro posizione sociale e di che tipo di accesso all’educazione abbiano.

Essere Post Fail: l’arte dopo il fallimento
Che cosa significa, allora, essere Post-Fail? Vogliamo proporre una sorta di manifesto, che possa servire anche da sommario e che tracci alcune linee guida. Essere Post-Fail e fare arte dopo il fallimento significa:

– Accettare che il futuro è (sempre?) una storia che raccontiamo oggi a noi stessi e che trae la sua forma da momenti specifici, attraverso corpi specifici che sono collocati nella storia.

– Accettare che queste stesse visioni del futuro in qualche modo deluderanno, sia come discorsi apocalittici sia come discorsi entusiasti, perché non c’è un’unica direzione verso la quale stiamo andando – o probabilmente non stiamo andando da nessuna parte.

– Accettare la sfida etica del fare arte riconoscendo le limitazioni storiche della posizione di un individuo nel mondo, e comunque dire qualcosa riguardo alle altre possibilità del nostro presente non realizzate.

– Fare arte è come se si fosse DJ a una festa, ma Dj che provano già i postumi di quella stessa festa. Questi DJ-con-il-mal-di-testa hanno l’imperativo di far continuare il divertimento: devono preoccuparsi di gestire la felicità e l’entusiasmo collettivo, pur sapendo perfettamente che alla fine ciascuno a festa finita si allontanerà in diverse direzioni. Realizzare arte Post-Fail vuol dire porsi la domanda circa quale musica è giusto suonare in un tale contesto, rispettando il proprio mal di testa mentre si cerca di offrire un’esperienza interessante e possibilmente gradevole.

Ci sono diversi esempi di questa attitudine nella nostra produzione. Per menzionarne alcuni, il NoTube Contest offre un premio a chi riesce ad individuare il video più inutile su YouTube. Sottolinea l’incredibile quantità di video inutili che vengono pubblicati e salvati su YouTube, riconoscendo che YouTube è anche, e forse perlopiù, un contenitore di questi video inutili. Tuttavia vuole prendersi cura di questi stessi video senza valore, rispettandoli e ri-valutandoli per quello che sono.

La serie In Time of Peace immagina la vita di un drone in un tempo fittizio in cui la guerra e il terrore sono terminati. L’impossibilità di immaginare una vita del genere è un modo di riflettere sulla difficoltà di immaginare un tempo di pace. Il progetto si prende cura di questo immaginario impossibile del futuro dando dignità a un drone solitario che, se non altro, prova a fare qualcosa per sé (come correre i 100 metri o farsi dei selfie)

La serie A Contemporary Portrait of the Internet Artist fa intravedere i molteplici significati del fare arte oggi, nell’era di Internet. Mostra, inoltre, la realtà in cui si trovano gli artisti che delegano le opere ad altri, lavorano al limite della legalità, sfruttano o sono sfruttati da altri artisti o dalle aziende. La serie prova a immaginare come una rete così complessa di relazioni – che può essere associata alla ”Internet Art” – possa venir rappresentata in un ritratto, usando quelle numerose forme di produzione e consumo che sono permesse dalle tecnologie online.

La serie fotografica che abbiamo creato per Silicon Plateau 1, Elevated Bangalore, riflette allo stesso modo questi approcci di un’arte dopo il fallimento. La serie è un reportage evidentemente distorto, dalla città di Bangalore. Nelle foto ciascuno vede i palazzi, i veicoli e le diverse costruzioni (inclusa la sopraelevata) tesi verso il cielo. È il sogno di una Bangalore elevata che ci siamo proposti di interpretare il più letteralmente possibile, allungando (o illuminando come l’autocorrettore di Microsoft Word ci suggerisce?) anche il più umile risciò dell’autista Indiano che può sognare di raggiungere, un giorno, l’altitudine così ampiamente promossa dai cartelloni pubblicitari ovunque in Bangalore.

Chiaramente la retorica dell’innalzamento utilizzata dalle agenzie immobiliari in Bangalore non è per nulla democratica: è una strategia per promuovere la divisione e l’inequità. Con Elevated Bangalore proviamo a unirci alla sfacciata artificialità delle promesse del progresso tecnologico e sociale che molte aziende IT stanno attuando a Bangalore. Le promesse suonano del tutto simili a quelle utilizzate per promuovere software come Photoshop, utilizzato per alterare le immagini e spesso pubblicizzato come strumento che ha cambiato la nostra percezione del mondo. È vero che il sogno di una Bangalore innalzata potrebbe migliorare le vite dei cittadini, tuttavia ciò che conta per noi è come questa tensione verso un’elevazione abbia generato una sorta di allucinazione collettiva, un’allucinazione che è anche tangibile nella città stessa. Noi crediamo che questa allucinazione debba essere affrontata tramite un approccio Post-Fail, che riconosca e prenda responsabilità del posto e del tempo in cui interviene, accettando le proprie limitazioni e continuando in qualche modo a suonare la musica.