Siamo tutti un po’ californiani

Non avete mai sfogliato il nostro cartaceo? Per farvi recuperare abbiamo selezionato un pezzo dal numero #110. L’articolo è parte del focus dedicato ai rapporti fra arte e suono. Qui , qui e qui gli altri interventi della sezione

Giugno 2016. Pochi giorni dopo la Brexit si chiudono le porte del celebre Design Museum, che per anni ha scandito le evoluzioni e le avanguardie del design contemporaneo. Ma si è trattato solo della fine di un capitolo della storia. Pochi mesi dopo, a novembre, Londra ha battezzato il new Design Museum, disegnato dall’architetto John Pawson, e presentatosi al mondo in tutta la sua magnificenza con una collezione e una struttura da autentica cattedrale internazionale del Design. Ben 10.000 mq di superficie in Kensington High Street, nella ex sede del Commonwealth Institute, per un museo, il più grande del mondo, che è costato 83 milioni di sterline. Una cifra a cui si è arrivati anche grazie al rush finale promosso con la campagna “adopt an object”, con la quale ognuno, con la sottoscrizione di 5 sterline, ha potuto aggiudicarsi una parziale “paternità” simbolica di uno dei 12 oggetti più iconici in collezione, dalla mitica Olivetti Valentine di Ettore Sottsass e Perry King, alla Vespa Clubman, passando per Phonosuper SK5, il giradischi progettato da Dieter Rams nel 1956. Ogni donatore ha ricevuto il filmato dell’opera scelta e gli è stato tributato un piccolo spazio sul sito web. Bel modo di salutare questo nuovo gioiello, sotto l’egida della condivisione e di un modello sociale che fa oggi di Londra quello che è stata New York negli anni Sessanta: la città dove tutto è possibile.

La collezione permanente, intitolata Designer Maker User, è un viaggio in un turbine di forme e linee che hanno segnato la storia contemporanea dell’umanità, come il Kalashnikov e i tacchi rossi di Louboutin, un treno della metropolitana londinese (prototipo in scala 1:1), la Vespa e la sedia Thonet, il Walkman e il Braun Phonosuper SK5 di Dieter Rams, solo per citarne alcuni. La prima mostra ospitata nel “tempio” è stata curata da Justin McGuirk, ed era intitolata Fear and Love: Reactions to a Complex World, un ragionamento che ha preso spunto dalle speranze e dai dubbi sollecitati dall’impatto sulle nostre vite dei molti cambiamenti in atto, sintetizzato da un percorso espositivo costellato da installazioni sul tema, appositamente commissionate ai designers.

Fino al 15 ottobre, invece, il museo propone il progetto “California: designing freedom”, sempre a cura di McGuirk. Un’indagine sul ruolo e sul peso internazionale del made in California, un brand diventato oggi emblema di modernità e di nuovi stili di vita, grazie a quel dinamismo della Sylicon Valley che ha dato i natali a prodotti diventati centrali di fenomenologie contemporanee, basti pensare al Mac, al surf, all’iPhone, lo skateboard, la Waymo (l’auto che si guida da sola) o Facebook. Questa ambiziosa ricerca riunisce manifesti e dispositivi portatili, ma guarda anche oltre l’hardware per esplorare come i progettisti dell’interfaccia stiano modellando alcune delle esperienze quotidiane più comuni. E’ vero che i prodotti californiani hanno influenzato le nostre vite in misura tale che in qualche modo siamo tutti un po’californiani? Una domanda che dà la misura di come stiano cambiando le tendenze e le vite delle persone, al punto che la curatrice, nello spiegare questo fenomeno, ha fatto più volte un parallelismo tra il made in Italy e il made in California: “Made in Italy si riferisce all’artigianato, alla qualità e alla materialità, mentre il design in California si riferisce alle esperienze digitali e all’interfaccia con l’utente. In questo senso la California ha davvero esteso le nostre idee sugli orizzonti che il design può raggiungere”.

 

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