E se Hirst fosse un sociologo?

Secondo Walter Benjamin, uno degli elementi specifici e caratterizzanti del modernismo risiede nell’estetica dello choc, ovvero in quel concetto dove il culto della personalità, il divismo, la subordinazione economica e politica, la pretesa illusoria della realtà divengono le caratteristiche cardine di un’opera d’arte. Leggere sotto questa ottica il monumentale e pretenzioso progetto espositivo di Damien Hirst Treasures from the werk of the unbelievable promosso e ospitato dalla Collezione Pinault di Venezia, vuol dire, in primo luogo, comprendere le dinamiche e i processi evolutivi che hanno generato una vera e propria mitologia intorno alla figura del celebre artista inglese.

L’antefatto, o artefatto qualsivoglia definirlo, è la storia di un ricchissimo collezionista del I secolo d.c., un liberto originario di Antiochia, Cif Amotan II, che perse la sua sterminata collezione di oggetti preziosi nel drammatico naufragio del vascello Apistos. Hirst si rivela un sapiente imbonitore: i suoi tesori recuperati dagli abissi vengono investiti di un’aurea di leggenda, la narrazione di un evento volutamente fittizio genera un potere di fascinazione, la monumentalità e l’imponenza del progetto distraggono e disorientano lo spettatore dalle domande e dalle osservazione che una mostra di questo genere dovrebbe far sorgere.

Che cos’è la cultura? Per definirla secondo i criteri stabiliti da Hannah Arendt, ovvero carattere durevole, posizione ritratta rispetto ai processi sociali, rifiuto del funzionale e della commercializzazione, potremmo osservare che la produzione artistica contemporanea sfugge completamente ai parametri citati. In questo precario regime estetico, secondo la definizione di Nicolas Bourriaud, il colossale progetto di Hirst non fa altro che sottolineare il fragile e transitorio universo materiale che abitiamo, in cui un’economia di tipo capitalista, che quindi immette naturalmente nei suoi ranghi anche la produzione artistica, rappresenta l’ingranaggio principale della nostra società globalizzata.

Treasures from the Werk of the Unbelievable si dimostra l’esemplificazione perfetta di una negoziazione in atto tra un nuovo dinamismo iconografico e la rotazione commerciale pianificata di ciò che viene definito prodotto culturale. In questo naufragio moderno (probabilmente il colpo di genio che dobbiamo meritatamente concedere a Hirst è l’incarnazione oggettuale di questo profondo abisso) non esiste nulla che ci impegni realmente. Tutto è concesso grazie alle leggi dello show business, grazie a un disimpegno ideologico e intellettuale che ci lascia scevri da ogni visione critica della storia e del presente.

Hirst legge il nostro tempo forse meglio di qualunque sociologo o filosofo contemporaneo, la vacuità e la precarietà culturale sono elementi cardine della nostra società, dove il perpetuo consumo e le sue derive capitalistiche sembrano essere gli unici punti certi del nostro vivere quotidiano. L’estetica baroccheggiante e trionfante declinata dall’artista britannico rappresenta semplicemente un tassello identificativo di questo modernismo liquido e transitorio, dove non esistono più i termini di una dicotomia che vede la durata opporsi al consumo.

Tutto è revocabile e legittimato. Damien Hirst è simulatore e allo stesso tempo narratore di una cronaca contemporanea che nega l’esistenza della quantità per creare l’illusione di una rarità.

Fino al 3 dicembre, Palazzo Grassi, Punta della Dogana,  Pinault Collection, Venezia; info: www.palazzograssi.it