In un filmato di quattro minuti, Luca Ciancabilla uno dei curatori della mostra bolognese Street Art, Bansky&Co. L’arte allo stato urbano, spiega l’intervento condotto con Camillo Tarozzi, Marco Pasqualicchio e Nicola Giordani su un murale eseguito dall’artista bolognese Blu nel 2006 nelle ex Officine di Casaralta. Un’operazione tecnica sofisticata eseguita fino ad oggi solo per salvare affreschi antichi, come il ciclo del Camposanto Monumentale a Pisa, strappato dalle pareti a seguito dei bombardamenti alleati. Un intervento applicato per la prima volta a un’opera d’arte contemporanea e di street art, condotto, secondo chi l’ha progettata, per salvaguardare e trasmettere alla posterità ciò che altrimenti sarebbe stato distrutto e che in ogni modo era, per collocazione, inaccessibile alla collettività. Un’azione che segna in Italia, insieme alla mostra romana su Bansky e non autorizzata dall’artista, un momento storico verso la musealizzazione di questa forma d’arte. La bufera che ha investito la mostra di Bologna, comprese le camionette della polizia e gli agenti in borghese all’interno di Palazzo Pepoli nei giorni dell’inaugurazione, hanno però misurato il malcontento di pubblico e di artisti. Ciò che in sostanza la musealizzazione distrugge, secondo chi si oppone a queste iniziative, è la violata libertà dell’artista che realizza un’opera per strada, in cui deve (o si presume deve) rimanere a ogni costo. Le contraddizioni e le divisioni anche tra gli artisti sembrano non mancare, una risposta netta non c’è e ormai alea iacta est, perché gli eventi di musealizzazione sono in atto in Italia ed in tutto il mondo. Ciò che è certo è che in Italia la proprietà intellettuale dell’opera e la sua ‘integrità’ (espressione usata nella legislazione del diritto d’autore, lg. 633) rimane sempre all’artista ed è inalienabile. Ma il supporto su cui è eseguita l’opera è quasi sempre di proprietà altrui e l’azione del dipingere (‘imbrattare’ secondo la lg. 639) è illegale. Ed ancora è evidente che l’artista lascia la sua opera per strada, affidandola al suo destino, ai suoi destini. Abbiamo incontrato Luca Ciancabilla in un caffè di Bologna per capire la sua idea. Lo stesso, disertato da Blu nel 2015, quando invitò l’artista per discutere della mostra imminente.
Che cosa differenzia la musealizzazione di un’opera di Street Art e quella di un’opera pittorica?
«Nulla. Quando pensiamo alla Street art ci immaginiamo opere realizzate in un contesto urbano, su un muro di mattoni o un intonaco decadente di un edificio, su una parete di una fabbrica abbandonata o sul cemento armato di un cavalcavia della tangenziale. Questa però è solo una visione parziale, per non dire decisamente limitata, del fenomeno. È vero. L’arte di strada per sua stessa definizione si muove fra le maglie del tessuto urbano delle nostre città. Non si deve però dimenticare che già da qualche decennio si è affacciata prepotentemente anche in spazi non propriamente conformi ai suoi natali, ma anche ai propri ideali. La maggior parte dei graffitisti o street artist infatti, se da un lato ambiscono a piazzare un lavoro in un luogo simbolico delle nostre metropoli, dall’altro ne espongono numerosi nelle stanze delle gallerie (per poi magari venderli) o addirittura nella stanze dei musei. La loro produzione deve infatti essere divisa fra i cosiddetti pezzi di strada e quelli di atelier. E per quanto mi riguarda, sia gli uni che gli altri possono essere musealizzati, perché sono a tutti gli effetti due facce della stessa medaglia. Certo, si potrebbe obiettare che nascono e vivono secondo modi, tempi e motivazioni completamente differenti. Perché il pezzo lasciato sui muri di una città, a differenza di quello consegnato a una tela, ha un valore simbolico e pratico decisamente diverso. Vuole essere per tutti e di tutti, ha un significato e una temporalità strettamente legate al luogo in cui e per cui è stato concepito. È per sua stessa natura effimero, fragile e non necessita di alcuna pietas conservativa. Deve obbedire alla legge della strada. Nei desideri del suo autore non deve assolutamente e in alcun modo essere consegnato ai posteri nella sua materia, risultato a cui aspira invece il classico lavoro pittorico. Se però ci approcciassimo alla Street art esclusivamente secondo questo orientamento che potremmo definire “ortodosso”, se di tutta la vita artistica di uno street artist o meglio, stante quanto affermato poco sopra, di un autore che ha fatto della strada uno dei suoi palcoscenici prediletti, noi decidessimo di salvaguardare e musealizzare solo ciò che viene appositamente e inequivocabilmente destinato al mondo mercantile e collezionistico non è detto che faremmo la scelta più giusta (o almeno dovremmo porci un paio di domande al riguardo). Per i detrattori di qualsiasi atto conservativo o “musealizzante” l’arte di strada “sulla strada”, il problema sarebbe facilmente risolvibile grazie alla fotografia e agli altri strumenti di archiviazione digitale. Per taluni l’unica soluzione perseguibile, per quanto mi riguarda, una delle tante, non per forza quella da rincorrere ad ogni costo».
Va intesa come un’evoluzione naturale, a cui ogni forma d’arte va incontro con presupposti di storicizzazione da istituzionalizzare nel tempo o come un’eventualità con altre dinamiche e presupposti?
«Inevitabilmente, quando un fenomeno artistico viene ad essere storicizzato, trova nelle istituzioni museali un interlocutore attento e interessato (che però, è bene sottolineare, il più delle volte giunge in ritardo rispetto al mondo collezionistico). E chiunque abbia esercitato o eserciti quel tipo di arte nelle strade del mondo, non può non aver pensato o pensare, se non ambire, a questa eventualità. Nel caso della Street art, questa storicizzazione corre rapidissima ed è in un continuo divenire e credo che gli spazi museali rappresentino se non già il presente, certamente il futuro espositivo di una certa Street art (di quella proveniente dalla strada per intenderci). E questo sta cambiando, in maniera repentina, le regole del gioco. Quelle dì ingaggio e anche quelle del mercato».
La mostra a Palazzo Pepoli a Bologna di questa primavera Street Art-Bansky & Co. L’arte allo stato urbano ha rispecchiato la tua idea di musealizzazione?
«Alcune straordinarie opere pittoriche del XXI secolo si trovano in imminente pericolo di vita sui muri di Bologna (si badi, si tratta di edifici privati, non pubblici). Alcuni professionisti del settore ed amanti dell’arte si adoperano per raccogliere fondi e agire contro il tempo, prima che sia troppo tardi e che il piccone demolitore l’abbia vinta. Dopo tanta fatica, esperti restauratori avviano il cantiere secondo i medesimi dettami teorici e pratici solitamente adottati sui più importanti capolavori dell’arte antica e moderna. Con la stessa cura riservata a un affresco di Piero della Francesca quei dipinti murali vengono staccati e trasportati su tela. A seguito della ideazione della mostra da te citata infine, si rendono pubblici ricoverandoli all’interno di uno dei più importanti e innovativi spazi museali italiani, il Museo della Storia di Bologna. Lì vi rimangono anche a mostra conclusa dove tutt’oggi si possono ammirare in quanto testimonianze della pittura urbana bolognese contemporanea, apice temporale di un ideale percorso virtuoso attraverso le opere di alcuni dei principali maestri della Felsina pittrice, da Vitale da Bologna ai Carracci, da Guercino a Giuseppe Maria Crespi ( e questo, si badi, gratuitamente, come del resto lo si poteva fare in mostra, è bene sottolinearlo, viste le polemiche feroci della scorsa primavera che hanno in tutti i modi censurato quanto noi avevamo affermato sin dall’inizio e cioè che le opere staccate dai muri erano state collocate nella corte di Palazzo Pepoli per permetterne la fruizione gratuita, visto che in quella parte del museo si poteva e ancora oggi si può accedere senza pagare alcun biglietto). Sì, tutto questo corrisponde alla mia idea di musealizzazione, perché il museo moderno ha il dovere di permettere la conservazione, la salvaguardia, la fruizione e lo studio delle testimonianze dell’arte del nostro presente onde consegnarle ai posteri. E soprattutto, ora più che mai, deve essere un luogo dove la sperimentazione, anche se decisamente controcorrente, può trovare la sua concretizzazione».
Le polemiche maggiori intorno all’evento bolognese hanno coinvolto l’artista Blu. Avresti un messaggio per lui a distanza di mesi dalla mostra di Bologna?
«Gli vorrei dire grazie! Se ci fossimo messi d’accordo non sarebbe potuto accadere niente di simile. Per una settimana intera Bologna è stata al centro del dibattito culturale, critico e artistico internazionale, convogliando su se stessa tantissime energie (alcune purtroppo negative). Ora difficilmente, anche colui che fino a ieri sbraitava contro qualsiasi scritta o tag sui muri, conosce Blu e ha gli strumenti per decidere se la Street art è altra cosa rispetto al cosiddetto vandalismo grafico. Peccato che in troppi, anche fra gli addetti ai lavori, abbiano sfruttato l’occasione per fare della bagarre politica e accendere i toni della discussione, mettere benzina sul fuoco esercitandosi in pura demagogia, cercando di spostare l’attenzione su temi extra-artistici che nulla avevano a che fare con quelli sollevati e indagati dalla nostra iniziativa, e che oggi più che mai anche a conseguenza della mostra sono all’attenzione di tutti i ricercatori del campo, e questo in ambito mondiale (e sto parlando del dibattito in atto sul restauro, sulla conservazione, sul collezionismo e sulla musealizzazione di queste testimonianze dell’arte contemporanea). Avere fuori da Palazzo Pepoli sei camionette della polizia e dei carabinieri nei giorni dell’inaugurazione e per i primi sette giorni di apertura, non è stata un’esperienza che mi piacerebbe ripetere, per nulla. E non credo che Blu volesse tutto questo, o ambisse a uno scenario del genere, e spero di non sbagliarmi».
Ad oggi possiamo contare su diverse esposizioni o addirittura musei di Street Art in Italia e all’estero. Quali esperimenti ritieni meritevoli e quali invece non promuovi?
«Ogni nuova esperienza al riguardo stimola il dibattito e la confronto, oltre che la maggior conoscenza su più ampia scala del fenomeno. A mio parere, fra tutte le esperienze espositive permanenti o temporanee che stanno arricchendo la scena europea e mondiale, le più interessanti non sono certamente quelle che promuovono situazioni in cui vengono mostrati i cosiddetti pezzi di atelier, opere realizzate da street artist per le gallerie e il mercato, bensì quelle che provano a dare risalto e spazio ai pezzi di strada, che provano a percorrere una via difficile, discutibile, ma quanto mai innovativa e ricca di stimoli per il presente e il futuro dell’arte urbana. Fra queste non si può non citare il Mucem di Marsiglia, da anni avamposto culturale per comprendere e indagare il uno degli scenari futuri della street art».
La libertà di uno storico e curatore d’arte inizia dove finisce quella di un’artista?
«L’artista di strada si dichiara libero. Libero di dipingere dove vuole e cosa vuole, quando vuole e secondo i modi a lui più consoni, spesso e volentieri a dispetto delle leggi, ma anche della libertà altrui, fregandosene della proprietà privata e demaniale. È un uomo libero, o almeno così si reputa, che nella maggior parte dei casi opera in un contesto pubblico, nel senso di fruibile a tutti. Una volta però che ha deciso di lasciare la sua opera alla mercé della città, della legge della strada, l’unica che lui rispetta, o almeno afferma a parole di onorare, può succedere che altri uomini. liberi come lui, decidano di distruggerla, imbiancarla, trasformarla o utilizzarla come supporto per un altro gesto artistico, o magari possano semplicemente ammirarla, studiarla, e quindi conservarla e salvaguardarla, se non prelevarla e musealizzarla onde evitare che perisca. La libertà dell’artista inizia e finisce insieme a quella dello storico e del curatore, perché sono entrambi liberi nel medesimo spazio e tempo. A meno che non si decida che le regole le fanno solo alcuni e gli altri devono solo stare a guardare, che si è liberi solo a proprio uso e convenienza, a secondo del proprio comodo. Che si dice di rispettare la libertà solo a parole, ma non a fatti. Se questo è il gioco, basta dirlo, senza ipocrisie e proclami di facciata. Nessun problema!».