Arcangelo Sassolino a Berlino

Arcangelo Sassolino, in mostra con Damnatio memorie nella galleria Rolando Anselmi di Berlino fino al 15 dicembre; Arcangelo Sassolino, dicevamo, è un artista del fare, le sue macchine, i suoi congegni rappresentano la sintesi di una sfida, o meglio, di un conflitto in seno alla materia. Descrivere il suo lavoro in una semplice accezione scultorea è fuorviante. Sassolino nella sua ricerca definisce i confini di una nuova estetica: le sue macchine non contemplano il bello assoluto, l’ingegno risiede nell’azione, nel meccanismo di una sequenza fisica da cui genera il movimento, la funzione o forse semplicemente l’enigma di una messa in scena. I lavori dell’artista nascono in grembo a un territorio tra i più industrializzati d’Italia: nel Nord Est, sede operativa dell’autore. Le materie primarie sono ferro, cemento, acciaio, laddove le caratteristiche canoniche del paesaggio cedono il passo alle fabbriche, al lavoro, in una vita agra, come la definiva Bianciardi, che poco si intreccia all’immaginario collettivo del nostro paese. Le macchine sono la sintesi di un processo di indagine visiva e di un inedito costruttivismo di matrice industriale, la materia viene plasmata nei meandri della fisica, in quella ricerca sperimentale che l’artista definisce come un salto nel vuoto, nell’assoluta libertà di poter concretizzare il proprio immaginario. Abbiamo raggiunto Sassolino per approfondire le dinamiche del suo lavoro e comprendere come un artista legato al proprio territorio d’origine riesca a confrontarsi con una continua creolizzazione del sistema dell’arte contemporanea internazionale. Scrive infatti Marcel Duchamp: “Ero abbastanza contento di essere senza radici. E questo perché temevo l’influenza delle mie radici. Me ne volevo sbarazzare. Quando mi sono trovato sull’altra sponda non c’erano radici, perché ero nato in Europa, e allora è stato facile”.

Cosa significa essere rimasto in Italia, avere una base sul territorio? Che cosa hai mantenuto delle tue radici?
«Lasciare le proprie radici è fondamentale, bisogna buttarsi nel vuoto, raggiungere la libertà assoluta che ti permette di sperimentare, di rintracciare il momento più alto dell’arte. Allo stesso tempo il legame con il territorio è un aspetto importante del mio lavoro: il Nord Est italiano è un luogo fatto di acciaio, di cemento, di strutture, di macchine. Nell’ultima mostra negli Stati Uniti ho compreso quanto portare fuori dai propri confini l’immaginario sia una cosa forte, fondamentale. È difficile essere profeti in patria, fa parte del gioco, ma non occorre lamentarsi, la libertà è essenziale, è un grande privilegio per l’artista e la si paga a caro prezzo, specie durante l’esordio quando non vieni compreso e l’impatto con la realtà è molte volte complicato».

Materiali eterogenei che usi per generare conflitti, da cosa deriva la tua elaborazione concettuale e il tuo procedimento tecnico? Quali influenze esterne hanno innescato la tua ricerca?
«Eraclito sosteneva che il conflitto è il padre di tutte le cose. Conflitto è un termine che porto dentro nei miei lavori dove la materia si scontra con altra materia, è un equilibrio silenzioso, in cui l’attrito tra le diverse componenti diviene esplicito. Nei miei lavori non vi è un problema compositivo, mi piace entrare fisicamente nei materiali, in un processo continuo da cui deriva un’estetica nuova. Le mie macchine agiscono, non nascono per essere belle, la questione estetica è funzionale ma non è lo scopo primario. Le macchine nascono per agire, nell’epoca in cui viviamo, dove internet e le nuove tecnologie hanno accelerato i tempi, credo che la scultura non debba più essere un oggetto statico da contemplare, ma una performance veloce, rapida, come fosse una scarica elettrica».

Cosa pensi di questa deriva economica spesso avulsa dal processo creativo e dalla conseguente considerazione reale nell’associare un prezzo a un’opera?
«Esistono dei fenomeni sociali che sono più forti della volontà collettiva, in un sistema economico mondiale dove il prezzo del rame, ad esempio, viene stabilito da un ristretto gruppo di persone in una stanza a Londra o New York è impossibile pensare che l’arte non subisca la medesima sorte. Queste logiche afferiscono a un sistema capitalistico, ma, senza dover entrare nel campo di una polemica, credo che la follia del mercato non toglierà mai la poeticità di un’opera. Il segno in un lavoro di Klee rimarrà sempre un oggetto poetico, a qualsiasi prezzo esso venga venduto».

Se dovessi pensare alla realizzazione di un desiderio, in termini creativi, che cosa vorresti vedere concretizzarsi?
«A volte la mancanza di tempo, di finanziamenti o semplicemente di istituzioni a cui proporre un progetto, fanno sì che certe idee, certi studi, rimangano solo su carta. La sfida è riuscire in questa giungla di difficoltà a realizzare la propria ricerca».

 Fino al 15 dicembre; Galerie Rolando Anselmi, Berlino; info: www.rolandoanselmi.com