Un mese di artisti. Ogni settimana, dal 1 agosto al 5 settembre, tre interviste per presentarvi alcuni protagonisti della scena nazionale e internazionale. Buona lettura.
L’interesse di Giuseppe De Mattia per la produzione dell’immagine nasce grazie al cinema d’autore ma è l’amore conflittuale per il mezzo fotografico a farne maturare la ricerca artistica, una ricerca che oggi si muove con estrema libertà tra linguaggi, questioni e processi eterogenei, mettendo costantemente alla prova le facoltà interpretative dello spettatore.
I temi della memoria e dell’archivio sembrano ricorrere spesso nella tua ricerca.
«Sono temi fondamentali, più che la base su cui costruire tutto. Questo interesse deriva da una doppia componente familiare: entrambi i miei nonni, in maniera diversa, erano degli accumulatori. Anche una zia a cui ero particolarmente legato aveva una casa molto piccola piena di oggetti. Dopo la sua morte ho avuto modo di vedere, senza la sua censura, ciò che negli anni aveva accumulato e lì ho capito che cosa è un archivio. Non è soltanto accumulo, ma accumulo di roba ben organizzata. Aveva scatole di scarpe in cui c’erano vecchie schedine, monete, penne che avevano smesso di scrivere ma erano ancora lì. Cassetti in cui c’erano adesivi, altri in cui c’erano disegni dei suoi nipoti».
In fondo è un modo di scrivere la memoria.
«Era un modo di scriverla, di prendersene cura e mi ha affascinato da subito. Ho fatto, per esempio, un lavoro sulla casa dei fratelli Arcangeli a Bologna che è stata importantissima dal punto di vista culturale, da lì passavano Gnudi e Morandi. Quando ho saputo che la casa, morto l’ultimo membro della famiglia, sarebbe stata svuotata ho deciso di fotografarla con i segni lasciati da questo svuotamento. Avevo trovato delle Delocazioni di Claudio Parmiggiani naturali, questi fuochi di vita vissuta avevano davvero lasciato i segni dei quadri, dei libri, non c’erano state delle combustioni artificiali a generarli. La casa era piena di questi segni che erano la memoria di quella famiglia».
Discorso simile per La coincidenza dello sguardo.
«Ho cominciato a collaborare con Home Movies, una cineteca creata qui a Bologna che preserva pellicole private di famiglia. Il lavoro fotografico per me stava cominciando a diventare un po’ stretto. Lavorare su un film, scegliere dei fotogrammi e farli diventare un’immagine fissa è stato un esercizio che ho sviluppato proprio con La coincidenza dello sguardo. Ho finto una committenza che mi chiedesse di fare fotografie alla Luigi Ghirri. Rispettando e amando molto la sua figura ho capito che l’unico modo per farlo era quello di rubare lo sguardo inconsapevole di un suo conterraneo contemporaneo. Ho chiesto allora all’archivio di famiglia di selezionare dei filmini di cineamatori dello stesso periodo e regione di Ghirri. L’isolamento di alcuni fotogrammi ha prodotto immagini che costituiscono il corpus centrale del lavoro, immagini che sembrano fotografie di Ghirri. Per la mostra queste opere erano state lavorate dallo stesso stampatore del fotografo».
Hai elaborato strategie che ti hanno portato a utilizzare sempre meno la fotografia.
«Dovevo dare sfogo a un’esigenza sempre più potente di esprimere un gesto anche fisico, performativo. Del fotografico rimane il rapporto con il supporto finale, mi rendo conto che anche quando faccio un disegno non riesco mai a svilupparlo in verticale, devo farlo sempre lavorando su un piano orizzontale. Questa distanza con il supporto viene molto dall’esperienza fotografica così come anche il legame con lo strumento che produce l’immagine. Non riesco a liberarmi tanto del processo mentale che c’è dietro la fotografia. Mi sono reso conto che non dovendo rappresentare la realtà, non avendo questa illusione, posso farlo con qualunque altro mezzo, recuperando una fotografia, disegnando, facendo un gesto su un pezzo di carta, con una videocamera, provocando un suono».
Spesso elabori dei processi di produzione dell’immagine la cui complessità non sempre emerge a un primo sguardo sul tuo lavoro.
«Non mi pongo mai troppo il problema della fruizione del mio lavoro. Forse ho subdolamente pensato di depistare sempre il possibile spettatore. Credo sempre di aver messo dei messaggi dentro i miei lavori che sono stati letti magari dal dieci per cento di chi ha visto le mie cose».
Per te questa non rappresenta un’occasione parzialmente mancata?
«Quando produco qualcosa lo faccio per un bisogno, per una necessità che non ti fa dormire la notte, non è un’urgenza su cui si può soprassedere. L’occasione l’ho già soddisfatta in quel momento».
Sì, ma il tuo è un lavoro pensato per rispondere a un’esigenza biologica ma anche per essere mostrato a un pubblico.
«Non faccio comunicazione di professione ma è ovvio che voglio comunicare e rendo pubblica questa comunicazione. I miei lavori hanno bisogno di un po’ di tempo, è un’occasione parzialmente mancata nell’immediato ma se qualcuno avesse tempo di soffermarsi un po’di più riuscirebbe anche a sentir parlare della mia generazione, della mia provenienza e di quella di tanti altri. Riuscirebbe a leggere un certo periodo storico del nostro paese. Il mio lavoro è un po’ criptico, non mi sono impegnato mai a fare diversamente, non fa parte della mia estetica».
Si ha la sensazione che per comprenderne veramente il senso sia necessario trovare un codice.
«È un codice così semplice da risultare complesso, un codice che accomuna tutti i miei lavori. Alcune volte, in preda a un senso di colpa quando lascio un lavoro fotografico per passare a un disegno, penso “cosa sto facendo, fammi fermare un attimo. Che relazione c’è?”. Così comincio a trovare una serie di codici che ho scritto in maniera inconscia ma che accomunano tutto. Non sono delle forzature di lettura ma fatti, accadimenti generazionali, legati alla regione da cui provengo, alla terra che mi ha adottato. Ritrovo questi elementi nel mio lavoro in modo molto codificato. Il tempo di raggiungere la soluzione a fine pagina di questi rebus è l’unico lusso che invito a prendersi a chi si imbatte nei miei lavori, d’impiegarci un po’, di non farsi colpire dall’immagine o da un impatto emotivo ma di andare un pochino oltre».
BIO
1980
Nasce il 24 aprile a Bari
2007
Si trasferisce a Lisbona e si occupa di cinema. Diventa assistente del produttore Francisco Villa-Lobos e entra in contatto con il regista Pedro Costa che influenzerà la sua prima fase di produzione artistica. Conosce l’artista Marina Ballo-Charmet, rapporto decisivo per una presa di coscienza sul suo lavoro
2011
Conosce l’editore Danilo Montanari e avvia una collaborazione che dura ancora oggi. Con lui pubblica il suo primo libro d’artista Strada Maggiore 49, Casa Arcangeli
2014
Frequenta diversi artisti, soprattutto pittori, uno in particolare, Riccardo Baruzzi, lo porta a riflettere sul gesto, sugli strumenti d’espressione di questo e sui supporti di registrazione. Questo impulso lo avvicina al disegno, alla performance e all’installazione.
2015
Prepara la mostra Made in Germany a Localedue a Bologna, curata da Gabriele Tosi, in cui esporrà cinque delle centinaia di prove di penne collezionate in quasi dieci anni.
Info: http://gdm.format.com
BOX
Madri è stato l’ultimo progetto che Giuseppe De Mattia ha realizzato per la mostra Vestire i luoghi curata da Luca Panaro all’interno del Palazzo dei Pio a Carpi. L’artista ridà vita a un gruppo di matrici tipografiche custodite all’interno del palazzo che, conservate sotto teca, vengono costrette alla paradossale impossibilità di stampare. A partire da tali matrici De Mattia riesce a produrre un file vettoriale in grado di riavviare il processo di creazione dell’immagine. In mostra, accanto alle matrici e alla loro riproduzione tecnologica, anche alcuni abiti da lavoro femminili che l’artista fa realizzare a partire da fotografie d’archivio contenute nel libro In palmo di mano di Franco Vaccari.