Intervista con Matteo Montani

Un mese di artisti. Ogni settimana, dal 1 agosto al 5 settembre, tre interviste per presentarvi alcuni protagonisti della scena nazionale e internazionale. Buona lettura.

«Ecco l’uomo! E poi l’uomo appare». Si tratta di uno dei quadri di Matteo Montani, Spettro, in cui a uno strato realizzato con l’aerografo si sovrappone uno strato disteso in calce e latte. Passando dell’acqua sulla superficie bianca emerge una figura, ma non appena l’acqua si asciuga, quella, come uno spettro, scompare. Non è un uomo, dunque. È il suo spirito, la sua essenza. La radiografia di un uomo. Quella lastra a cui tanti suoi lavori sembrano rimandare. Ciò che, infatti, interessa all’artista è mettere a nudo l’essere umano, viaggiarci dentro e attraverso, mettere in dialogo tra loro due dimensioni: il dentro e il fuori; lo spirituale e il materico. Un movimento ascensionale che va in contemporanea, orizzontalmente, dal corpo all’anima; verticalmente, dalla terra al cielo. Tra di essi, l’arte non è che dimensione di mezzo: non è tutta materia e non è tutta spirito. Ma ad essa tutta la materia e tutto lo spirito si aggrappano e si incapsulano, come le immagini nell’iride dell’occhio, la cui palpebra è terra di mezzo tra visibile e trascendentale. Come le colate di pittura si incagliano alla superficie irta della carta abrasiva, inconsueto supporto sul quale l’artista ama lavorare.

Che valenza ha per te questo materiale?
«Ho cominciato a usare la carta abrasiva perché mi colpivano le sue potenzialità concettuali. Può parlare del tempo, della consunzione o della rigenerazione e stringere un rapporto con il colore, la materia. I primi lavori erano delle vere e proprie abrasioni: il pigmento che andavo a levare dai muri delle città rimaneva impigliato sulla carta e dava vita a immagini molto suggestive. Più tardi ho scoperto anche le sue eccellenti qualità come supporto pittorico, quando ci cade sopra accidentalmente una goccia di colore blu. Credo che oggi per me la carta abrasiva rappresenti l’occhio del pittore, che tutto afferra, al quale il visibile rimane aggrappato».

Quel è la funzione espressiva del blu nelle tue opere? Titolo anche della tua tesi.
«Quando ho scritto la tesi ero affascinato dalla storia del blu oltremare e dai cicli giotteschi. Di quegli anni era il film Blue di Derek Jarman: 80 minuti di schermo blu: l’occhio a un certo punto cominciava ad andare per conto suo e a creare ombre. Quest’idea della macchia che si auto-genera è entrata nei miei lavori. Il blu per me ha funzione di velo, perché vela e rivela, è inafferrabile».

Parli spesso dell’influenza che Munch ha avuto su di te.
«Fabio Sargentini ha scritto che la mia pittura è un grido sublimato. Mi ci rivedo in questa definizione. Io come Munch, sono affascinato da una pittura che deve smaterializzarsi: lui seppelliva le tele sotto la neve per dar loro quella consunzione finale».

Lontani dalla disperazione di Munch, i tuoi ultimi lavori sembrano più carichi di angoscia.
«La condizione che ho voluto descrivere è quella della grazia e dello strazio. Non c’è grazia che non porti strazio e non c’è strazio che non porti grazia, questa per me è la condizione umana. La differenza è quale grazia e quale strazio».

Con la personale al Museo Andersen ti sei aperto alla multimedialità. Qual è il tuo rapporto con questi linguaggi e come pensi possano aiutare l’arte? Sono utili per avvicinare il pubblico?
«Ogni artista ha il suo segno e penso che se il segno porta verso nuovi linguaggi, sono i benvenuti. Ma è preferibile che il linguaggio multimediale sia al servizio del segno e non viceversa. Per quanto riguarda il pubblico, invece, l’audience dell’arte contemporanea esiste già e ha anche interessi e aspettative ben precise. Ma l’atteggiamento di vedere sempre soddisfatte e compiaciute le proprie aspettative mi inquieta. È un discorso, questo, che prescinde dal medium, ma va dritto al contenuto. Per questo sono arrivato molto prima di quanto pensassi alla figura. Perché credo che alla fine di tutto, questo pubblico abbia bisogno di figure umane nelle quali ritrovarsi e ripensarsi. Se muore la figura, allora vuol dire che l’uomo è assente, è nell’oblio. Per questo apprezzo moltissimo il lavoro delle nuove generazioni, specie i writer, che hanno l’esigenza di far riaffrontare la figura senza paura e di parlare a noi e di noi più da vicino».

È questo che ti ha spinto a esporre una scultura con dei volti?
«Sì. Le sculture erano ricoperte di cera e poste su delle basi anche queste di cera, al loro interno erano nascosti i colori. Man mano che la scultura si scioglieva i colori fuoriuscivano componendo forme astratte. Dovevano sciogliersi fino a scomparire, ma prima della chiusura della mostra ho deciso di interrompere lo scioglimento per salvare l’ultimo pezzetto di volto superstite. Salvare la figura, appunto».

BIO
1972
Nasce il 5 settembre a Roma
2000
Vince il Premio Suzzara
2007
Espone alla Galleria L’Attico di Fabio Sargentini con la personale Foster
2008
Partecipa alla quindicesima edizione della Quadriennale di Roma
2011
Espone al Museum am Dom di Wurzburg con la personale Seelenlandschaft